LA RIFORMA DELLE PROVINCE: MONTAGNA O TOPOLINO?

[di Sergio Maset

XXVIII Convegno SISP – Sezione STUDI REGIONALI E POLITICHE LOCALI, Perugia, 11 – 13 settembre 2014]

Lo scorso 8 aprile è entrata in vigore la legge “Disposizioni sulle citta’ metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni” (Legge n° 56/2014). Due elementi rilevano. Primo, le province riformate sono enti di secondo livello, i cui organi eletti, presidente e consiglio provinciale, trovano nei consiglieri comunali e nei sindaci della provincia l’elettorato attivo e passivo. Secondo, rispetto all’idea iniziale di svuotamento di funzioni si è assistito invece, nel corso dell’iter, ad una ridefinizione delle stesse. Le province riformate dovrebbero divenire uno strumento dei comuni per la gestione unitaria di funzioni. Ci sono forse le premesse perché una riforma topolino possa partorire una montagna?

La Legge Del Rio interviene a valle di una serie di decreti legge[1] succedutisi dal 2010 che hanno tentato di contenere la spesa pubblica agendo anche sull’assetto istituzionale degli enti locali. Il loro obiettivo era quello di conseguire risparmi nella spesa pubblica attraverso la razionalizzazione dei livelli istituzionali, la riallocazione di funzioni tra enti e il perseguimento di economie di scala via gestione associata dei servizi. Il percorso che ha preceduto la legge 54 è risultato assai convulso, con revisioni, retromarce, difetti di costituzionalità. Con la nuova legge, alla luce dei limiti e dei riscontri (e resistenze) espressi da parte degli enti locali si è arrivati ad una formulazione relativamente più snella, meno conformativa e più concentrata su alcuni principi di riforma.

Gran parte dell’articolazione del testo riguarda la trasformazione delle province e l’istituzione delle Città Metropolitane mentre in relazione alle Unioni dei comuni vengono da un lato semplificate e corrette una serie di norme introdotte dai precedenti decreti e dall’altro vengono richiamate esplicitamente alcune funzioni che le unioni possono svolgere per conto dei comuni[2].

La legge Del Rio coinvolge profondamente anche i comuni, e non solo per il fatto che gli amministratori costituiscono l’elettorato attivo e passivo delle province. Il fatto di aver depotenziato dal punto di vista istituzionale la provincia sposta infatti l’attenzione sui comuni e sugli ambiti territoriali entro i quali gli stessi gestiscono le loro funzioni fondamentali e le funzioni che potrebbero essere assegnate loro dalla Stato e dalle regioni all’esito della trasformazione delle province. Proviamo a vedere con ordine alcuni elementi centrali di questo percorso.

La città metropolitana in Italia, come previsto dalla Costituzione e attuato dalla legge Del Rio, è un ente locale con un suo organo di governo, competenze, personale, bilancio ecc. Nelle intenzioni della legge 56/2014 le Città Metropolitane sono enti con poteri e competenze ampi, finalizzati allo sviluppo del loro territorio. A differenza delle città metropolitane, la (nuova) Provincia è invece un ente che si caratterizza essenzialmente per funzioni di coordinamento di area vasta[3] e di supporto per i comuni che la compongono.

Un elemento della riforma che accomuna entrambi gli enti, Città metropolitane e Province, è il fatto di essere enti di secondo livello. La sostanza del rapporto che la Città Metropolitana e la nuova Provincia intrattengono con i rispettivi comuni è però profondamente diversa. La Città Metropolitana, ad esempio, acquisisce la funzione di pianificazione territoriale generale, potendo fissare “vincoli e obiettivi all’attività e all’esercizio delle funzioni dei comuni compresi nel territorio metropolitano”. La Città Metropolitana dovrebbe agire (nelle intenzioni) come una sorta di grande comune che ha come nucleo centrale la città capoluogo il cui sindaco, non a caso, è anche il sindaco metropolitano. Al contrario, le funzioni fondamentali proprie della Provincia non rimandano ad alcuna attività di indirizzo sovraordinato ai comuni per i quali svolge invece, d’intesa con gli stessi, attività di supporto.

Ora, come sopra ricordato, non si può leggere la riforma delle province senza tener presente l’iter che in questi anni ha accompagnato le (tentate) riforme per la razionalizzazionale della spesa degli enti locali.

Il punto su cui si è per lungo tempo focalizzato il dibattito è stato quello di come applicare concretamente il principio di adeguatezza ponendo un limite al “municipalismo” inteso come applicazione in senso autonomista della sussidiarietà. Non bisogna dimenticare infatti che la riforma delle province in realtà è passata attraverso l’idea di loro accorpamento[4] e che c’è stato un ampio confronto sulla questione dell’efficienza dei comuni nello svolgimento delle funzioni fondamentali.

Sono stati presentati in questi anni diversi studi volti ad esplorare la dimensione ottimale dei comuni da un punto di vista demografico in particolare in relazione alla spesa pro capite per la gestione degli enti stessi.[5] Questi studi hanno evidenziato che i comuni più piccoli (inferiori ai 5.000 abitanti), presentano una spesa corrente pro-capite significativamente superiore, per quanto riguarda ad esempio il costo di funzionamento della sola macchina amministrativa, a quella dei comuni di maggior dimensione. I decreti succedutisi dal 2010 hanno provato ad intervenire sulla creazione di ambiti ottimali entro i quali i comuni devono produrre in forma associata i servizi. Questa discussione si è articolata intorno a due opzioni: ridefinizione delle circoscrizioni comunali e associazionismo intercomunale. Ovvero, accorpare i comuni e renderli più grandi oppure rispondere ai bisogni di maggior scala attraverso una gestione associata delle funzioni. La discussione non ha prodotto alcuna scelta forte.

Da un lato non è emerso un consenso per procedere ad un ridisegno ampio delle circoscrizioni e dunque arrivare alla creazioni di nuovi grandi comuni via accorpamento delle municipalità preesistenti alla stregua di quanto avvenuto nei decenni scorsi in Germania. La Germania Federale tra il 1968 e il 1978 aveva infatti ridotto le sue municipalità da oltre 24 mila a 8518. Le fusioni sono state pertanto incentivate ma non poste come obiettivo di una riforma generale.

Dall’altro lato l’opzione della gestione associata intercomunale,  lasciata alla assoluta volontarietà dei comuni, aveva prodotto negli anni risultati a macchia di leopardo, complessivamente non significativi se non addirittura di mera facciata. In realtà il decreto Legge 78/2010 (conv. Ln. 122/2010) ha introdotto l’obbligo alla gestione associata per i comuni più piccoli ma, banalmente, ha mancato di indicare tra quali comuni avrebbe dovuto realizzarsi  la gestione associata. In teoria le amministrazioni regionali avrebbero dovuto provvedere alla individuazione di ambiti territoriali ottimali entro i quali i comuni dovevano gestire in forma associata le funzioni fondamentali. La normativa nazionale stabiliva infatti che “spetta alle Regioni individuare, con propria legge, la dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento in forma associata delle funzioni fondamentali dei comuni” e al contempo ha introdotto l’obbligatorietà alla gestione associata delle funzioni fondamentali[6] per i comuni di più piccola dimensione (inferiori ai 3.000 se montani o 5.000 abitanti).

Va da se che indicare che le regioni “dovevano” individuare gli ambiti ottimali specificando però che solo i comuni più piccoli erano obbligati alla gestione associata significava richiedere alle regioni un disegno politico e non un atto meramente amministrativo-contabile: basti pensare a un comune di 3.000 abitanti circondato da comuni di 6.000 abitanti per nulla interessati ad associarsi. In questo quadro alcune regioni si sono spinte avanti nel percorso di ri-articolazione del territorio (si può citare l’Emilia Romagna e più recentemente il Friuli Venezia Giulia) ma in prevalenza hanno sostanzialmente declinato.

Ambiti ottimali per classe demografica in Emilia Romagna

Fonte: elaborazioni su dati Istat(Censimento 2011) e Regione Emilia Romagna (http://autonomie.regione.emilia-romagna.it/in-evidenza/riordino-territoriale-definiti-i-nuovi-ambiti-ottimali)

Il piano concluso in Emilia Romagna ha portato alla riorganizzazione dell’intero territorio (341 comuni, lasciando fuori 7 dei 9 capoluoghi provinciali) in 46 ambiti, il 20% dei quali ha una dimensione compresa tra i 30 e i 50 mila abitanti e quasi il 60% una dimensione superiore ai 50 mila abitanti. L’Emilia Romagna nell’attuare il suo programma di riordino ha assunto (1) la rimozione delle comunità montane, (2) di riferirsi sostanzialmente ai distretti sanitari per la definizione degli ambiti ottimali, conseguentemente (3) di creare ambiti territoriali ampi, (4) di mettere un limite alla creazione di unioni all’interno di ciascun ambito, (5) di obbligare alla gestione associata delle funzioni trasferite dalla regione tutti i comuni dell’ambito, indipendentemente dalla dimensione, (6) di obbligare i comuni all’interno di ciascun ambito alla uniformazione dei sistemi informatici e tecnologici. Fondamentale il fatto che la Regione avesse chiarito che gli ambiti venivano definiti tenendo in considerazione le proposte dei comuni se congruenti con le linee guida e che in mancanza di una loro proposta si sarebbe provveduto comunque ad attribuire i comuni.

L’individuazione degli ambiti ottimali per la gestione associata delle funzioni comunali si  intreccia ora strettamente con la questione della attribuzione da parte dello stato e delle regioni delle funzioni provinciali. Nella legge, in relazione alla attribuzione delle funzioni provinciali si fa infatti riferimento all’obiettivo di conseguire efficacia nello svolgimento delle funzioni fondamentali da parte dei comuni. Il punto centrale sembra essere proprio questo:  dove collocare il baricentro dell’intercomunalità tra il livello provinciale e quello degli ambiti sub-provinciali. Questo nodo è stato demandato alla conferenza unificata tra Governo, Regioni, Comuni e Province. Nella conferenza unificata dello scorso 5 agosto il governo e le regioni si sono impegnate a dare risposta su questi punti entro la conferenza di settembre. Bisognerà pertanto attendere ancora per capire se il topolino ha davvero partorito una montagna.

Va tuttavia osservato, in conclusione, che si sono comunque creati i presupposti per una serie di dinamiche tutt’altro che banali. E’ ben noto che il livello provinciale ha permeato l’organizzazione delle associazioni di categoria e sindacali in modo sostanziale. Tuttora il livello provinciale è quello in cui è prevalentemente incardinato il sistema di rappresentanza delle associazioni industriali, dell’artigianato, del commercio. La ragione è che il livello provinciale è sempre stato storicamente quello in cui sono stati organizzati gli uffici periferici della pubblica amministrazione e del governo. Ancora oggi la provincia in quanto circoscrizione è il livello in cui si strutturano le camere di commercio, le direzioni territoriali dell’Inps, dell’Agenzia delle Entrate, le prefetture, le questure.

Un punto fermo posto dalla Del Rio è stato l’indicazione che il livello provinciale e delle città metropolitane non costituisce ambito territoriale obbligatorio o di necessaria corrispondenza per l’organizzazione periferica delle pubbliche amministrazioni. “Conseguentemente le pubbliche amministrazioni riorganizzano la propria rete periferica individuando ambiti territoriali ottimali di esercizio delle funzioni non obbligatoriamente corrispondenti al livello provinciale o della città metropolitana”.

Ora, nella misura in cui procede la riorganizzazione territoriale degli enti e delle agenzie centrali si completa di fatto il vero depotenziamento della provincia come livello istituzionale. Poco importa che al comma seguente si affermi che “le disposizioni della presente legge non modificano l’assetto territoriale degli ordini, dei collegi professionali e dei relativi organismi nazionali previste dalle rispettive leggi istitutive, nonché delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura” . Come si è ben visto, ad esempio, nel caso delle camere di commercio, il governo non è entrato nel merito del livello territoriale in base al quale si devono organizzare ma ha posto invece un limite ai contributi camerali richiesti alle imprese. L’effetto ottenuto è stato quello che le stesse camere di commercio hanno avviato dei processi di accorpamento, scavalcando il livello provinciale.


[1] Decreto legge 31 maggio 2010, n. 78; Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138; Decreto legge  6 luglio 2012, n. 95.

[2] Si tratta di funzioni di controllo interno quali quelle di responsabile anticorruzione, responsabile per la trasparenza, le funzioni dell’organo di revisione, le funzioni di competenza dell’organo di valutazione e di controllo di gestione.

[3] Comma 85. Le province […] quali enti con funzioni di area vasta, esercitano le seguenti funzioni fondamentali:

  a)  pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonche’ tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza;

  b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in  materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonche’ costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente;

  c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale;

  d) raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali;

  e) gestione dell’edilizia scolastica;

  f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale  e

promozione delle pari opportunita’ sul territorio provinciale.

[4] LE PROVINCE:istruzioni per l’uso. Approfondimenti in occasione dell’entrata in vigore della legge di conversione n. 135/2012 del decreto legge n. 95/2012 Spending review,.  Filippo Patroni Griffi Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, 2012.

[5] Confindustria Bergamo (2010), Finanziamento e spese dei comuni italiani alla ricerca dell’efficienza, su dati AIDAPA di Bureau Van Dijk, bilanci dei comuni italiani di competenza 2008;

Elementi per una revisione della spesa pubblica (versione del 8maggio2012–Pietro Giarda);

Le unioni di comuni  Di Francesco Raphael Frieri,Luciano Gallo,Marco Mordenti.

[6] Le funzioni fondamentali da gestire in forma associata sono le seguenti (art.19, L. 7 agosto 2012, n. 135):

  • organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo;
  • organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, compresi i servizi di trasporto pubblico comunale;
  • catasto;
  • pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale, nonchè la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale;
  • attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi;
  • organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e riscossione dei relativi tributi;
  • progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini;
  • edilizia scolastica per la parte non attribuita alle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici;
  • polizia municipale e polizia amministrativa locale.

Riferimenti bibliografici e normativi

Boyer A. (2012), La cooperazione intercomunale in Francia, Istituzioni del Federalismo n. 3, pp. 583-598.

Decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica.

Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo.

Decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini.

Giarda P. (2012), Elementi per una revisione della spesa pubblica, 8 maggio.

iFEL Fondazione ANCI (2012), I comuni italiani 2012, Numeri in tasca.

iFEL Fondazione ANCI (2012), Il quadro finanziario dei Comuni, Rapporto 2012.

Legge regionale 27 dicembre 2011, n. 68, Norme sul sistema delle autonomie locali, Regione Toscana.

Legge regionale 28 dicembre 2011, n. 22, Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, Regione Lombardia.

Legge regionale 27 aprile 2012, n. 18, Disciplina dell’esercizio associato di funzioni e servizi comunali, Regione Veneto.

Legge regionale 28 settembre 2012, n. 11, Disposizioni organiche in materia di enti locali, Regione Piemonte.

Legge regionale 21 dicembre 2012, n. 21, Regione Emilia Romagna.

Legge Regionale 25 luglio 2013, n. 9, Regione Emilia Romagna.

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Patroni Griffi F. (2012), La riforma del settore pubblico, relazione alle università La Sapienza e Luiss – Roma, e SPISA – Bologna, 23-24 novembre.

Patroni Griffi F. (2013), La città metropolitana e il riordino delle autonomie territoriali. un’occasione mancata?, relazione all’Università degli studi Suor Orsola Benincasa, Napoli, 19 gennaio.

Woelk J. (2012), La cooperazione inter-municipale in Germania: alla ricerca di un equilibrio fra autonomia ed efficienza, Istituzioni del Federalismo n. 3, pp. 549-581.

H. Wollmann “The two waves of territorial reforms of local government in Germany” (in J. Meligrana, Redrawing Local Government Boundaries: An International Study of Politics, Procedures and Decisions, 2005).

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