UN GOVERNO PER LA RIFORMA FEDERALISTA

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova il 6 marzo 2018]

La rappresentazione geografica dei risultati di quest’ultima elezione ci restituisce una fotografia in cui il fattore davvero prevalente è il dualismo Nord-Sud, con da una parte un Nord a trazione Lega “nazionale” di Salvini – un partito che poco ricorda la Lega Nord – e dall’altra un Sud pentastellato costruito su promesse di strepitoso assistenzialismo (reddito di cittadinanza e via discorrendo). A perdere, inutile a dirlo, i due partiti più certamente nazionali (Forza Italia e il Partito Democratico), avulsi per tradizione sia da narrazioni fortemente localiste che nazionaliste.

Una lettura non convenzionale dovrebbe tuttavia suggerirci che l’affermazione dei Cinque Stelle è indebolita potenzialmente e forse irrimediabilmente dalla sua geografia. In Italia un partito del Sud costruito sulle promesse di una economia di assistenza non è credibile rispetto ad un qualsivoglia obiettivo di sviluppo del paese né, tanto meno, è sostenibile per la finanza pubblica. E lo è ancor meno di quanto lo sia un partito del Nord. Ciò è vero per una ragione molto semplice: tanto più un partito del Sud preme dal punto di vista elettorale in quanto bacino di voti, tanto più si indebolisce, perché rianima un’istanza – che diviene a quel punto separatista – del Nord. Mentre all’autonomia del Nord fa da contraltare la richiesta di perequazione a favore del Sud, richiesta finora sempre rispettata, un rinforzo delle istanze assistenzialiste del Sud genererebbe oggi una irrimediabile chiusura da parte del Nord.

L’unica reale risorsa politica che mi pare emergere in questo scenario è costituita dal processo di riforma autonomista attuato in questi ultimi mesi dalle tre regioni Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Ed è l’unica perché è quella che realisticamente può porre un limite al rischio di allargare ulteriormente il solco tra Nord e Sud, senza peraltro cadere in una retorica neo unitaria (“il noi Italiani”) costruita su di un insostenibile isolazionismo verso l’esterno, alla Trump o alla Brexit, per intenderci, che ben poco interessa alle imprese e ai lavoratori.

In questa prospettiva c’è da domandarsi se l’opzione sostenibile non sia un governo di scopo da costruirsi intorno ad un programma di attuazione del disegno autonomista regionale sulla base della piattaforma a cui sono giunte Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Tre regioni di tradizione e cultura politica ben distinta accomunate dal fatto di essere il motore economico del paese, e interessate a realizzare l’autonomia come strategia per rispondere più efficacemente ad obiettivi di competitività economica globale: da sole, è bene ricordarlo, realizzano il 55% del valore dell’export nazionale.

L’opzione alternativa tratteggia foschi scenari, in cui Governi deboli lascerebbero mano libera non tanto alle derive populiste quanto all’alta burocrazia del Paese, attribuendo di fatto a questa il ruolo di garante della salvaguardia delle sue finanze e della sua unità. Un incubo in cui la rappresentanza generale è rassegnata al governo di una tecnocrazia grigia e gattopardesca.

DECENTRAMENTO? C’È TANTO DA FARE

[di Sergio Maset

Pubblicato nella rivista Fare Impresa – ottobre novembre 2017]

E’ sempre buona regola in particolare quando il tema è complesso, incominciare un ragionamento mettendo ordine tra i termini e così faccio ora richiamando intanto la distinzione tra potestà legislativa e titolarità amministrativa. Semplificando sino al limite di banalizzare possiamo dire che la prima si riferisce a dove vengono prese le decisioni che portano a formulare le leggi, e in relazione a che tema. La seconda, la titolarità amministrativa, si riferisce al livello territoriale cui spetta la competenza di governare quali aspetti della pubblica amministrazione.

Partiamo da quest’ultimo punto: l’amministrazione e il governo. La spesa pubblica è composta per i 20% dal costo del lavoro del pubblico impiego, per il 33% dalle pensioni; il restante 47% è distribuito tra acquisto di beni e servizi – in questo ambito gran parte è rappresentato dal servizio sanitario – investimenti e infine dal pagamento di interessi sul debito. Di conseguenza entrare nel merito dell’amministrazione della spesa pubblica, della sua ripartizione e quindi anche del suo governo, significa inevitabilmente entrare nel merito della contrattazione.

Da questo punto di vista è rilevante l’emergere nel dibattito regionale di una crescente attenzione alla contrattazione decentrata; tuttavia non si può affrontare seriamente questo tema senza porre sul piatto tanto la contrattazione del privato quanto quella del pubblico. Bisogna essere consapevoli che nell’ambito della pubblica amministrazione la situazione attuale è quanto di più lontano vi possa essere da una contrattazione regionale; se infatti prendiamo in esame la relazione tra Pil pro capite e retribuzione media, nel comparto privato emerge una perfetta correlazione; più è basso il Pil pro capite, più sono basse le retribuzioni e viceversa. Al contrario, nel comparto pubblico le retribuzioni sono omogenee su tutto il territorio nazionale.

Questo fatto dovrebbe stimolare una riflessione sulla possibilità che si creino, proprio in ragione di forzata omogeneità, elementi di sperequazione, anche all’interno dello stesso comparto pubblico. Pertanto: 1. intervenire seriamente sull’amministrazione, e quindi sulle deleghe amministrative, richiede di intervenire anche sulla contrattazione del lavoro; 2. è opportuno interrogarsi se e in che misura abbia ancora senso la totale omogeneità contrattuale nel pubblico a livello nazionale, senza tenere conto dei differenziali regionali in termini di costo della vita, di retribuzioni medie nel comparto privato e di altri fattori di disparità.

Un secondo tema che vorrei richiamare riguarda invece il rapporto tra sussidiarietà e la capacità di risposta effettiva alle esigenze di un territorio. La domanda è: una maggiore sussidiarietà, ovvero uno spostamento del baricentro decisionale più vicino al territorio, garantisce di per sé una maggiore efficacia? La risposta è: non c’è nessun automatismo. Basti pensare ad esempio alle competenze dei Comuni in materia urbanistica, e al ruolo di regolatore che le regioni hanno a tutti gli effetti in materia, a fronte delle domande di riduzione della burocrazia. Questa “sussidiarietà” non ha portato automaticamente a significativi passi avanti verso la semplificazione dei regolamenti comunali, né in direzione di una loro armonizzazione: ogni Comune è una libera repubblica con la sua conseguente burocrazia. Lo stesso vale per tutte le altre materie. Prendiamo l’istruzione: in questo momento sentiamo spesso richiamare il tema dello scollamento tra i fondamentali capisaldi famiglie-imprese-istituzioni scolastiche. Le famiglie orientano i figli nel tentativo di perseguire un miglioramento della loro condizione sociale; le imprese lamentano il disallineamento tra le competenze richieste e quelle disponibili; le scuole – come pure le università – sembrano talvolta animate più da una competizione sull’acquisizione dello studente che non dalla effettiva applicabilità della loro offerta formativa. Ora, il fine dell’azione di governo deve essere migliorare l’incontro tra queste esigenze. La domanda è: in che misura e in che modo una maggiore sussidiarietà, una maggiore vicinanza della potestà amministrativa al livello locale, aumenta la capacità di risposta a queste domande?

Infine, per tratteggiare il terzo punto, quello relativo all’associazionismo comunale, osserviamo alcuni chiaroscuri nell’esperienza diretta di innovazione nell’organizzazione dei Comuni. In provincia di Vicenza, nei 70 Comuni al di sotto di 5000 abitanti, il 42% della spesa corrente comunale è catturato dalle funzioni generali di amministrazione e gestione: dalla ragioneria ai tributi, dall’anagrafe all’ufficio tecnico; in sostanza, per il funzionamento stesso della macchina amministrativa. La percentuale, nei Comuni oltre i 10.000 abitanti, scende al 30%; al 19% nei 5 Comuni oltre i 25.000 abitanti. Nelle 46 amministrazioni sotto i 3000 abitanti la spesa per le funzioni generali è di circa 330 € all’anno per abitante; nei Comuni oltre i 25.000 scende a circa 150 € per abitante: meno della metà. Questo mette a disposizione maggiori importi da spendere negli ambiti dei settori sociali, del territorio, e per la sicurezza. Come è possibile ridurre l’incidenza delle spese “fisse” di gestione? Una possibile soluzione è rappresentata dalla gestione in forma associate delle funzioni generali mediante le Unioni dei Comuni. Queste tuttavia, nei pochi casi in cui sono state realizzate, sono rimaste ben lontane dal gestire in forma associata le funzioni generali, proprio quelle per le quali i dati suggeriscono rilevanti economie di scala. In una provincia dove quasi il 60% dei comuni ha meno di 5000 abitanti, è possibile liberare risorse da poter reinvestire sempre a livello comunale, a condizione, anche con l’ausilio delle province, di gestire le funzioni generali mediante unioni di comuni, di adeguata dimensione, alla scala, ad esempio, dei vecchi distretti sanitari. Le stime di una apposita simulazione infatti indicano che, organizzando le funzioni generali non per singolo comune ma in forma associata per più comuni si potrebbero liberare risorse da rimettere in gioco per il territorio intervenendo nel miglioramento dei servizi stessi. Una simulazione prudenziale restituisce un potenziale di risparmio di oltre 31 milioni anno nella sola provincia di Vicenza.

Il ragionamento sviluppato fin qui evidenzia dunque come le variazioni negli equilibri amministrativi possono essere volani di sviluppo e innovazione solo nella misura in cui sono accompagnate da un cambiamento nel rapporto tra amministrazione e rappresentanza. La definizione degli ambiti di maggiori competenze dovrà essere un passaggio collettivo, un percorso che definisca più ampiamente il rapporto di competenze tra le regioni e lo stato. Questo percorso non potrà essere realizzato restando circoscritto nell’ambito del confronto politico-amministrativo. Deve esserci infatti un obiettivo di miglioramento della vita dei cittadini e delle imprese e questo è perseguibile a condizione che vi siano organizzazioni di rappresentanza efficaci e consapevoli del loro ruolo propositore nei confronti dell’attività amministrativa e legislativa.

LA RAZIONALIZZAZIONE CIRCOSCRIZIONALE DEGLI ENTI TERRITORIALI LOCALI IN EUROPA E IN ITALIA

 [di Sergio Maset Giugno 2017

in CIRCOSCRIZIONI TERRITORIALI. Riflessioni a settant’anni dal progetto di Adriano Olivetti(a cura di) Alessandro Bove e Angelo Pasotto) CLEUP, Padova, 2017]

Chiunque si occupi di politica anche solo per passione o interesse culturale avrà osservato come spesso il territorio costituisce un facile elemento su cui provare a costruire un’azione politica. Nel corso degli anni ’90 e ancora più nei primi anni 2000, quello di “territorio” è stato un concetto frequentemente utilizzato dalle leadership locali di qualsiasi colore. Si è assistito ad un fiorire di piani strategici comunali, provinciali o regionali in cui l’elemento di contrapposizione, verso il comune o la provincia vicina, costituiva sistematicamente il fattore intorno al quale definire la strategia d’azione. La logica era abbastanza semplice: presentare l’opportunità di fare qualcosa per scongiurare il rischio che la facesse il vicino; poco importava se si trattava di costruire un aeroporto (per un po’ di tempo anche Padova voleva il suo aeroporto), di avere un’università (Treviso come può non avere un ateneo?) o di diventare provincia (Bassano del Grappa ha un export fortissimo). È del tutto passata quella stagione? Non del tutto, ma certamente una evoluzione c’è stata, favorita da almeno tre fattori.

Il primo, in ordine di rilevanza, è stato il taglio drastico delle risorse rese disponibili, a livello locale, da politiche redistributive: con meno denaro a disposizione l’attenzione si sposta, o dovrebbe spostarsi, sulla ’amministrazione’ e sulla ‘gestione’ più che sulla ‘definizione di strategie competitive localiste’.

Il secondo fattore trova la sua origine nelle esigenze del sistema produttivo. Per le aziende che devono esportare, gestire catene di approvvigionamento, o per i lavoratori che devono spostarsi sul territorio, poco importa se i servizi pubblici sono amministrati a questo o quel livello, l’importante è che funzionino bene ad un costo competitivo.

È in questo contesto e con questa consapevolezza che l’Unione Europea, negli ultimi anni, ha costruito una nuova narrazione del rapporto tra città, aree urbane e metropolitane e il loro territorio di riferimento. Questo è il terzo fattore di spinta: un nuovo concetto di ruolo funzionale e di integrazione delle città che diventano ‘motore’ di sviluppo regionale in cui agiscono contestualmente: specializzazione, eccellenza e integrazione funzionale del territorio. Dunque, non competizione tra città e territori di una regione, ma ’integrazione funzionale’ per riuscire a fornire servizi di valore per una competizione a scala globale.

Questi elementi, anche se solo brevemente accennati, portano inevitabilmente ad una considerazione: i processi di razionalizzazione di qualsiasi ente od organizzazione, se guidati da obiettivi di efficienza ed efficacia, devono prima di tutto rendere chiari quali sono le funzioni e i compiti da svolgere. In quest’ottica la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali va dunque considerata come una possibile strategia ma non a priori un obiettivo. E non basta nemmeno che l’obiettivo sia una dichiarata maggiore efficienza nella gestione.

Ciò che bisogna chiedersi è se i compiti e le funzioni sono gli stessi che in passato. C’è stata una ridefinizione delle funzioni cui sono chiamati gli enti locali? Quale è il rapporto tra funzioni da svolgere e attività di rappresentanza? Quali attività richiedono prossimità fisica e quali si dematerializzano e delocalizzano nel senso che divengono indifferenti alla localizzazione?

Il rischio di partire da un ridisegno della scala territoriale prima ancora di aver ridefinito ruolo e funzioni, è quanto mai reale. Basti ricordare che cosa successe nel 2012, quando il governo Monti tentò una riforma delle Province in cui l’elemento forte era proprio l’accorpamento delle circoscrizioni: Rovigo con Verona, Padova con Treviso ecc… Il disegno fu stoppato sul nascere e non se ne fece nulla. Ma non deve sfuggire il fatto che anche in quel caso si è partiti assumendo subito un obiettivo di incremento di scala a mezzo del ridisegno delle circoscrizioni prima ancora di porsi il problema se andavano o meno ridefiniti il tipo di rappresentanza e il tipo di funzioni che le province riformate dovevano svolgere.

Con la legge Delrio (legge 56/2014) il sistema di rappresentanza nel governo delle province è stato definito andando anche a comporre gli elementi che ne caratterizzeranno il ruolo funzionale. Le province riformate sono enti di secondo livello, i cui organi eletti, presidente e consiglio provinciale, trovano nei consiglieri comunali e nei sindaci della provincia l’elettorato attivo e passivo. La legge Delrio tuttavia non ridefinisce in alcun modo le circoscrizioni degli enti locali, comuni e province. E la ragione è abbastanza semplice: è doppiamente rischioso intervenire contestualmente sulle funzioni e sulle circoscrizioni territoriali senza aver prima valutato gli effetti che si producono intervenendo su uno solo dei due elementi. Ora, per quanto riguarda le province, la legge ha pensato bene di intervenire sulle funzioni, dunque mettendo da parte l’idea di ridefinire i confini. Ma anche nell’intervenire sulle funzioni la Delrio non ha proceduto con un disegno conformativo bensì ha posto le regioni nella condizione di decidere che tipo di funzioni far svolgere alle loro rispettive province, riconfermando le precedenti, piuttosto che avocandone alcune a sé o demandandone ai comuni.

La governance regionale innescata dalla Legge Delrio non segue pertanto modelli netti, poiché non vi è alcuna precisa richiesta di nettezza nel disegno normativo nazionale, mentre, al contrario, la definizione ispirata al «riordino» sembra mostrare indirizzi verso «ordini nuovi», che rispondono a processi locali. Solo che questi esiti, non solo sono molto difformi tra loro, e ciò era prevedibile poiché ispirati dalla legge stessa, ma sono anche particolarmente provvisori. Vi sono infatti regioni quali l’Emilia Romagna, nelle quali vi è stato un sostanziale superamento delle province attraverso up-scaling di funzioni alla regione e integrazione della governance sub-regionale in una configurazione di Aree Vaste amministrate da Unioni di comuni come meso-governo alternativo, complementare ai due poli (regionale e comunale). Ciò si è tradotto in una chiara scelta di governance multilivello a base regionale, con chiare concessioni ai comuni, riorganizzati pressoché in tutto il territorio regionali in unioni di comuni di ampie dimensioni[1]

Nel caso del Veneto invece la Delrio ha dato luogo a scelte di continuità mantenendo un solido ruolo del secondo livello provinciale con la Regione chee è restata ben lontana dall’intervenire sui livelli istituzionali intermedi. Non tutto è fermo tuttavia. Infatti, paradossalmente, la novità più rilevante nella governance regionale è emersa non nel riordino istituzionale ma in quello funzionale dei servizi sanitari, con la costituzione di Asl provinciali in 5 territori provinciali e la costituzione di quattro Asl sub provinciali nel vicentino e nel veneziano. Se questo assetto dovesse consolidarsi, allora la governance del livello intermedio restituirebbe un Veneto così articolato: una città metropolitana lagunare (da Chioggia a Venezia) con una sub area a larga autonomia (Venezia Orientale) e sette aree vaste (Vicenza, Bassano e le altre province).

E per quanto riguarda i comuni e dunque le circoscrizioni comunali? Per lungo tempo il dibattito è ruotato intorno alla necessità di applicare concretamente il principio di adeguatezza ponendo un limite al ‘municipalismo’ inteso come interpretazione in senso autonomista della sussidiarietà. I decreti succedutisi dal 2010 in poi hanno provato ad intervenire sull’individuazione di ambiti dimensionali ottimali per le funzioni fondamentali dei comuni. Nel dibattito le opzioni considerate sono state essenzialmente due: ridefinizione delle circoscrizioni comunali via accorpamento di comuni da un lato e associazionismo intercomunale per la gestione associata dall’altro.

La discussione, come è noto, non ha prodotto alcuna scelta forte. Certamente non è emerso un consenso per procedere ad un ridisegno ampio delle circoscrizioni comunali ed arrivare alla creazione di nuovi grandi comuni con l’accorpamento delle municipalità preesistenti alla stregua di quanto avvenuto nei decenni scorsi in Germania. La Germania Federale tra il 1968 e il 1978 aveva infatti ridotto le sue municipalità da oltre 24 mila a 8518.  In Italia l’idea di un accorpamento sistematico e su larga scala dei comuni non è evidentemente considerata politicamente sostenibile, per cui le fusioni vengono incentivate ma non rappresentano un obiettivo di riforma generale.

Dunque, nessuna revisione delle circoscrizioni comunali. Troppo complesso, per le ragioni poste in premessa, andare a ridisegnare i territori per via autoritativa dal livello nazionale. Meglio lasciare che le macchine amministrative si riorganizzino dal basso secondo le specificità territoriali regionali: è proprio questo che ha fatto la Delrio. Viene pertanto da chiedersi quali sono i processi di razionalizzazione che si stanno realizzando tramite la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali visto che, come sopra ricordato, gli enti locali non hanno modificato i loro confini. Ebbene una serie di processi di riorganizzazione territoriale sono in corso da tempo e alcuni sono stati richiamati anche nella stessa legge Delrio. Tra gli articoli finali della legge si trova questo passaggio: “il livello provinciale e delle città metropolitane non costituisce ambito territoriale obbligatorio o di necessaria corrispondenza per l’organizzazione periferica delle pubbliche amministrazioni […] conseguentemente le pubbliche amministrazioni riorganizzano la propria rete periferica individuando ambiti territoriali ottimali di esercizio”. Questo processo sta già avvenendo per le articolazioni periferiche dell’amministrazione centrale: Agenzia delle Entrate, INAIL, INPS, Prefetture.

Con una certa ironia, un passaggio successivo della stessa legge interviene precisando che: «Le disposizioni della presente legge non modificano l’assetto territoriale degli ordini, dei collegi professionali e dei relativi organismi nazionali previsto dalle rispettive leggi istitutive, nonché delle camere di commercio, industria, artigianato». Ancora una volta il legislatore si è guardato bene dal ridefinire esplicitamente i confini locali. Tuttavia, qualche mese dopo, con il decreto legge 90/2014, il Governo ha ridotto il diritto annuale dovuto alle camere di commercio a carico delle imprese. Il risultato è stato che le camere di commercio hanno presentato un piano di autoriforma con accorpamenti territoriali che procede tuttora. E anche in questo caso, abbiamo assistito ad una stagione di fervore iniziale “a la” Risiko, in cui la soluzione di tutti i mali sembra passare attraverso accorpamenti.

Da queste esperienze ci derivano almeno un paio di lezioni. La prima è che la revisione delle circoscrizioni territoriali degli enti locali è probabilmente, nel breve periodo, più un mito che una realtà. Comuni, province e regioni si terranno ragionevolmente i loro confini.

La seconda lezione, che riguarda i collegi, gli ordini professionali e le stesse camere di commercio, ci insegna che un processo di razionalizzazione deve partire rispondendo prima di tutto alla domanda: “che tipo di attività e funzioni ha senso che questi svolgano domani?”. Cercare di capire come ridefinire le circoscrizioni territoriali in modo tale che queste organizzazione possano continuare a fare ciò che facevano ieri, al contrario, rischia di essere uno sterile e reazionario esercizio contabile.


[1] Per una analisi comparata dei processi di rescaling regionale che seguono la Delrio si veda: Bolgherini S., Lippi A., Maset S. (2016), In mezzo al guado. La governance subregionale tra «vecchie» province e «nuove» aree vaste, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», n. 3.

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LA RIFORMA DELLE PROVINCE: MONTAGNA O TOPOLINO?

[di Sergio Maset

XXVIII Convegno SISP – Sezione STUDI REGIONALI E POLITICHE LOCALI, Perugia, 11 – 13 settembre 2014]

Lo scorso 8 aprile è entrata in vigore la legge “Disposizioni sulle citta’ metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni” (Legge n° 56/2014). Due elementi rilevano. Primo, le province riformate sono enti di secondo livello, i cui organi eletti, presidente e consiglio provinciale, trovano nei consiglieri comunali e nei sindaci della provincia l’elettorato attivo e passivo. Secondo, rispetto all’idea iniziale di svuotamento di funzioni si è assistito invece, nel corso dell’iter, ad una ridefinizione delle stesse. Le province riformate dovrebbero divenire uno strumento dei comuni per la gestione unitaria di funzioni. Ci sono forse le premesse perché una riforma topolino possa partorire una montagna?

La Legge Del Rio interviene a valle di una serie di decreti legge[1] succedutisi dal 2010 che hanno tentato di contenere la spesa pubblica agendo anche sull’assetto istituzionale degli enti locali. Il loro obiettivo era quello di conseguire risparmi nella spesa pubblica attraverso la razionalizzazione dei livelli istituzionali, la riallocazione di funzioni tra enti e il perseguimento di economie di scala via gestione associata dei servizi. Il percorso che ha preceduto la legge 54 è risultato assai convulso, con revisioni, retromarce, difetti di costituzionalità. Con la nuova legge, alla luce dei limiti e dei riscontri (e resistenze) espressi da parte degli enti locali si è arrivati ad una formulazione relativamente più snella, meno conformativa e più concentrata su alcuni principi di riforma.

Gran parte dell’articolazione del testo riguarda la trasformazione delle province e l’istituzione delle Città Metropolitane mentre in relazione alle Unioni dei comuni vengono da un lato semplificate e corrette una serie di norme introdotte dai precedenti decreti e dall’altro vengono richiamate esplicitamente alcune funzioni che le unioni possono svolgere per conto dei comuni[2].

La legge Del Rio coinvolge profondamente anche i comuni, e non solo per il fatto che gli amministratori costituiscono l’elettorato attivo e passivo delle province. Il fatto di aver depotenziato dal punto di vista istituzionale la provincia sposta infatti l’attenzione sui comuni e sugli ambiti territoriali entro i quali gli stessi gestiscono le loro funzioni fondamentali e le funzioni che potrebbero essere assegnate loro dalla Stato e dalle regioni all’esito della trasformazione delle province. Proviamo a vedere con ordine alcuni elementi centrali di questo percorso.

La città metropolitana in Italia, come previsto dalla Costituzione e attuato dalla legge Del Rio, è un ente locale con un suo organo di governo, competenze, personale, bilancio ecc. Nelle intenzioni della legge 56/2014 le Città Metropolitane sono enti con poteri e competenze ampi, finalizzati allo sviluppo del loro territorio. A differenza delle città metropolitane, la (nuova) Provincia è invece un ente che si caratterizza essenzialmente per funzioni di coordinamento di area vasta[3] e di supporto per i comuni che la compongono.

Un elemento della riforma che accomuna entrambi gli enti, Città metropolitane e Province, è il fatto di essere enti di secondo livello. La sostanza del rapporto che la Città Metropolitana e la nuova Provincia intrattengono con i rispettivi comuni è però profondamente diversa. La Città Metropolitana, ad esempio, acquisisce la funzione di pianificazione territoriale generale, potendo fissare “vincoli e obiettivi all’attività e all’esercizio delle funzioni dei comuni compresi nel territorio metropolitano”. La Città Metropolitana dovrebbe agire (nelle intenzioni) come una sorta di grande comune che ha come nucleo centrale la città capoluogo il cui sindaco, non a caso, è anche il sindaco metropolitano. Al contrario, le funzioni fondamentali proprie della Provincia non rimandano ad alcuna attività di indirizzo sovraordinato ai comuni per i quali svolge invece, d’intesa con gli stessi, attività di supporto.

Ora, come sopra ricordato, non si può leggere la riforma delle province senza tener presente l’iter che in questi anni ha accompagnato le (tentate) riforme per la razionalizzazionale della spesa degli enti locali.

Il punto su cui si è per lungo tempo focalizzato il dibattito è stato quello di come applicare concretamente il principio di adeguatezza ponendo un limite al “municipalismo” inteso come applicazione in senso autonomista della sussidiarietà. Non bisogna dimenticare infatti che la riforma delle province in realtà è passata attraverso l’idea di loro accorpamento[4] e che c’è stato un ampio confronto sulla questione dell’efficienza dei comuni nello svolgimento delle funzioni fondamentali.

Sono stati presentati in questi anni diversi studi volti ad esplorare la dimensione ottimale dei comuni da un punto di vista demografico in particolare in relazione alla spesa pro capite per la gestione degli enti stessi.[5] Questi studi hanno evidenziato che i comuni più piccoli (inferiori ai 5.000 abitanti), presentano una spesa corrente pro-capite significativamente superiore, per quanto riguarda ad esempio il costo di funzionamento della sola macchina amministrativa, a quella dei comuni di maggior dimensione. I decreti succedutisi dal 2010 hanno provato ad intervenire sulla creazione di ambiti ottimali entro i quali i comuni devono produrre in forma associata i servizi. Questa discussione si è articolata intorno a due opzioni: ridefinizione delle circoscrizioni comunali e associazionismo intercomunale. Ovvero, accorpare i comuni e renderli più grandi oppure rispondere ai bisogni di maggior scala attraverso una gestione associata delle funzioni. La discussione non ha prodotto alcuna scelta forte.

Da un lato non è emerso un consenso per procedere ad un ridisegno ampio delle circoscrizioni e dunque arrivare alla creazioni di nuovi grandi comuni via accorpamento delle municipalità preesistenti alla stregua di quanto avvenuto nei decenni scorsi in Germania. La Germania Federale tra il 1968 e il 1978 aveva infatti ridotto le sue municipalità da oltre 24 mila a 8518. Le fusioni sono state pertanto incentivate ma non poste come obiettivo di una riforma generale.

Dall’altro lato l’opzione della gestione associata intercomunale,  lasciata alla assoluta volontarietà dei comuni, aveva prodotto negli anni risultati a macchia di leopardo, complessivamente non significativi se non addirittura di mera facciata. In realtà il decreto Legge 78/2010 (conv. Ln. 122/2010) ha introdotto l’obbligo alla gestione associata per i comuni più piccoli ma, banalmente, ha mancato di indicare tra quali comuni avrebbe dovuto realizzarsi  la gestione associata. In teoria le amministrazioni regionali avrebbero dovuto provvedere alla individuazione di ambiti territoriali ottimali entro i quali i comuni dovevano gestire in forma associata le funzioni fondamentali. La normativa nazionale stabiliva infatti che “spetta alle Regioni individuare, con propria legge, la dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento in forma associata delle funzioni fondamentali dei comuni” e al contempo ha introdotto l’obbligatorietà alla gestione associata delle funzioni fondamentali[6] per i comuni di più piccola dimensione (inferiori ai 3.000 se montani o 5.000 abitanti).

Va da se che indicare che le regioni “dovevano” individuare gli ambiti ottimali specificando però che solo i comuni più piccoli erano obbligati alla gestione associata significava richiedere alle regioni un disegno politico e non un atto meramente amministrativo-contabile: basti pensare a un comune di 3.000 abitanti circondato da comuni di 6.000 abitanti per nulla interessati ad associarsi. In questo quadro alcune regioni si sono spinte avanti nel percorso di ri-articolazione del territorio (si può citare l’Emilia Romagna e più recentemente il Friuli Venezia Giulia) ma in prevalenza hanno sostanzialmente declinato.

Ambiti ottimali per classe demografica in Emilia Romagna

Fonte: elaborazioni su dati Istat(Censimento 2011) e Regione Emilia Romagna (http://autonomie.regione.emilia-romagna.it/in-evidenza/riordino-territoriale-definiti-i-nuovi-ambiti-ottimali)

Il piano concluso in Emilia Romagna ha portato alla riorganizzazione dell’intero territorio (341 comuni, lasciando fuori 7 dei 9 capoluoghi provinciali) in 46 ambiti, il 20% dei quali ha una dimensione compresa tra i 30 e i 50 mila abitanti e quasi il 60% una dimensione superiore ai 50 mila abitanti. L’Emilia Romagna nell’attuare il suo programma di riordino ha assunto (1) la rimozione delle comunità montane, (2) di riferirsi sostanzialmente ai distretti sanitari per la definizione degli ambiti ottimali, conseguentemente (3) di creare ambiti territoriali ampi, (4) di mettere un limite alla creazione di unioni all’interno di ciascun ambito, (5) di obbligare alla gestione associata delle funzioni trasferite dalla regione tutti i comuni dell’ambito, indipendentemente dalla dimensione, (6) di obbligare i comuni all’interno di ciascun ambito alla uniformazione dei sistemi informatici e tecnologici. Fondamentale il fatto che la Regione avesse chiarito che gli ambiti venivano definiti tenendo in considerazione le proposte dei comuni se congruenti con le linee guida e che in mancanza di una loro proposta si sarebbe provveduto comunque ad attribuire i comuni.

L’individuazione degli ambiti ottimali per la gestione associata delle funzioni comunali si  intreccia ora strettamente con la questione della attribuzione da parte dello stato e delle regioni delle funzioni provinciali. Nella legge, in relazione alla attribuzione delle funzioni provinciali si fa infatti riferimento all’obiettivo di conseguire efficacia nello svolgimento delle funzioni fondamentali da parte dei comuni. Il punto centrale sembra essere proprio questo:  dove collocare il baricentro dell’intercomunalità tra il livello provinciale e quello degli ambiti sub-provinciali. Questo nodo è stato demandato alla conferenza unificata tra Governo, Regioni, Comuni e Province. Nella conferenza unificata dello scorso 5 agosto il governo e le regioni si sono impegnate a dare risposta su questi punti entro la conferenza di settembre. Bisognerà pertanto attendere ancora per capire se il topolino ha davvero partorito una montagna.

Va tuttavia osservato, in conclusione, che si sono comunque creati i presupposti per una serie di dinamiche tutt’altro che banali. E’ ben noto che il livello provinciale ha permeato l’organizzazione delle associazioni di categoria e sindacali in modo sostanziale. Tuttora il livello provinciale è quello in cui è prevalentemente incardinato il sistema di rappresentanza delle associazioni industriali, dell’artigianato, del commercio. La ragione è che il livello provinciale è sempre stato storicamente quello in cui sono stati organizzati gli uffici periferici della pubblica amministrazione e del governo. Ancora oggi la provincia in quanto circoscrizione è il livello in cui si strutturano le camere di commercio, le direzioni territoriali dell’Inps, dell’Agenzia delle Entrate, le prefetture, le questure.

Un punto fermo posto dalla Del Rio è stato l’indicazione che il livello provinciale e delle città metropolitane non costituisce ambito territoriale obbligatorio o di necessaria corrispondenza per l’organizzazione periferica delle pubbliche amministrazioni. “Conseguentemente le pubbliche amministrazioni riorganizzano la propria rete periferica individuando ambiti territoriali ottimali di esercizio delle funzioni non obbligatoriamente corrispondenti al livello provinciale o della città metropolitana”.

Ora, nella misura in cui procede la riorganizzazione territoriale degli enti e delle agenzie centrali si completa di fatto il vero depotenziamento della provincia come livello istituzionale. Poco importa che al comma seguente si affermi che “le disposizioni della presente legge non modificano l’assetto territoriale degli ordini, dei collegi professionali e dei relativi organismi nazionali previste dalle rispettive leggi istitutive, nonché delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura” . Come si è ben visto, ad esempio, nel caso delle camere di commercio, il governo non è entrato nel merito del livello territoriale in base al quale si devono organizzare ma ha posto invece un limite ai contributi camerali richiesti alle imprese. L’effetto ottenuto è stato quello che le stesse camere di commercio hanno avviato dei processi di accorpamento, scavalcando il livello provinciale.


[1] Decreto legge 31 maggio 2010, n. 78; Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138; Decreto legge  6 luglio 2012, n. 95.

[2] Si tratta di funzioni di controllo interno quali quelle di responsabile anticorruzione, responsabile per la trasparenza, le funzioni dell’organo di revisione, le funzioni di competenza dell’organo di valutazione e di controllo di gestione.

[3] Comma 85. Le province […] quali enti con funzioni di area vasta, esercitano le seguenti funzioni fondamentali:

  a)  pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonche’ tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza;

  b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in  materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonche’ costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente;

  c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale;

  d) raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali;

  e) gestione dell’edilizia scolastica;

  f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale  e

promozione delle pari opportunita’ sul territorio provinciale.

[4] LE PROVINCE:istruzioni per l’uso. Approfondimenti in occasione dell’entrata in vigore della legge di conversione n. 135/2012 del decreto legge n. 95/2012 Spending review,.  Filippo Patroni Griffi Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, 2012.

[5] Confindustria Bergamo (2010), Finanziamento e spese dei comuni italiani alla ricerca dell’efficienza, su dati AIDAPA di Bureau Van Dijk, bilanci dei comuni italiani di competenza 2008;

Elementi per una revisione della spesa pubblica (versione del 8maggio2012–Pietro Giarda);

Le unioni di comuni  Di Francesco Raphael Frieri,Luciano Gallo,Marco Mordenti.

[6] Le funzioni fondamentali da gestire in forma associata sono le seguenti (art.19, L. 7 agosto 2012, n. 135):

  • organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo;
  • organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, compresi i servizi di trasporto pubblico comunale;
  • catasto;
  • pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale, nonchè la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale;
  • attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi;
  • organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e riscossione dei relativi tributi;
  • progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini;
  • edilizia scolastica per la parte non attribuita alle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici;
  • polizia municipale e polizia amministrativa locale.

Riferimenti bibliografici e normativi

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Decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica.

Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo.

Decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini.

Giarda P. (2012), Elementi per una revisione della spesa pubblica, 8 maggio.

iFEL Fondazione ANCI (2012), I comuni italiani 2012, Numeri in tasca.

iFEL Fondazione ANCI (2012), Il quadro finanziario dei Comuni, Rapporto 2012.

Legge regionale 27 dicembre 2011, n. 68, Norme sul sistema delle autonomie locali, Regione Toscana.

Legge regionale 28 dicembre 2011, n. 22, Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, Regione Lombardia.

Legge regionale 27 aprile 2012, n. 18, Disciplina dell’esercizio associato di funzioni e servizi comunali, Regione Veneto.

Legge regionale 28 settembre 2012, n. 11, Disposizioni organiche in materia di enti locali, Regione Piemonte.

Legge regionale 21 dicembre 2012, n. 21, Regione Emilia Romagna.

Legge Regionale 25 luglio 2013, n. 9, Regione Emilia Romagna.

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