Il Veneto dei flussi viaggia lungo la Pedemontana

[di Luca Garavaglia ]

Il 28 dicembre 2023 è stato inaugurata l’ultima tratta della Pedemontana Veneta, tra Malo e Montecchio Maggiore, e nella primavera del 2024 sarà completato l’allacciamento tra la nuova infrastruttura e l’autostrada A4, sempre a Montecchio. E’ finalmente giunta a compimento un’opera lungamente attesa, che ha portata strategica perché ridisegna completamente non solo la geografia dei flussi del Veneto, ma anche quella dell’intero sistema del Nord-Est.

Alla dimensione regionale, la nuova autostrada definisce finalmente condizioni di accessibilità dignitose a tutta l’area pedemontana, che rappresenta una componente di primaria importanza del sistema manifatturiero veneto. La riduzione dei tempi di connessione alle città e ai mercati comporterà conseguenze immediate (una riduzione dei tempi del pendolarismo e di quelli della logistica merci), ma anche effetti di medio-lungo periodo rendendo quei territori più appetibili per l’insediamento di nuove imprese e di nuovi residenti.

A una scala più ampia, la Pedemontana veneta costituisce un rafforzamento significativo dell’intera porzione italiana del corridoio V (qualche anno fa chiamato Corridoio Barcellona Kiev!), che taglia la pianura padana in direzione Ovest-Est: i mega-corridoi performanti infatti non sono solo assi autostradali o ferroviari, ma richiedono la presenza di “fasci di infrastrutture” parallele e interconnesse, che garantiscano piena permeabilità al territorio e diano la possibilità ai flussi di prendere direttrici alternative in caso di congestione o blocchi. In altre parole, non sono solo sistemi ad alta capacità, ma anche sistemi a alta ridondanza. La nuova autostrada consentirà al Veneto di inserirsi pienamente nel sistema dei flussi macro-regionale e trans-nazionale lungo il quale oggi si organizzano le filiere produttive allungate, i sistemi delle conoscenze, i mercati del lavoro.

Missione compiuta, quindi? In realtà per il completamento della griglia del corridoio mancano ancora alcuni interventi importanti: sia per quanto riguarda le connessioni nord-sud, a integrazione dei grandi assi per l’Austria, sia relativamente alla connessione tra Pedemontana e rete autostradale friulana. Perché la regola del “fascio di infrastrutture” non può riguardare solo tratte parziali dei corridoi, ma deve interessare la loro intera lunghezza. La Superstrada veneta collega le città pedemontane da Vicenza a Pordenone: la prosecuzione diretta verso il Friuli e il valico di Tarvisio – senza dunque la ridiscesa verso la A4 – completerebbe il corridoio.

Un altro tema di rilevanza strategica resta poi quello dell’alta velocità ferroviaria, che costituisce oggi il principale vettore di scambio e integrazione di flussi (non solo di persone, ma anche di conoscenze) tra le grandi aree metropolitane. La connessione rapida su ferro tra l’area centro-veneta e Bologna e Trieste è un requisito necessario per la saldatura del sistema economico della macro-regione del Nord, senza la quale le visioni del “nuovo triangolo dello sviluppo” tra Milano, Bologna e Venezia rischiano di restare solo retoriche.

A crescere è la medio-grande impresa. Soprattutto in Emilia, Veneto e Toscana

[di Sergio Maset e Michele Polesana

L’articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2019 su VeneziePost]

Le ragioni per occuparsi di manifattura e analizzarne le tendenze in atto sono in Italia, e nel Nord Est in particolare, molteplici. Consideriamone tre. Innanzitutto, è sempre bene ricordarlo, l’Italia rappresenta la seconda manifattura d’Europa per valore aggiunto (263 miliardi di euro), dietro la Germania (705 miliardi di euro) e davanti alla Francia (232 miliardi di euro; 2018, Eurostat). Seconda ragione è il peso che questo settore riveste in termini di incidenza del valore aggiunto manifatturiero sul totale del valore aggiunto in regioni come il Veneto, l’Emilia Romagna (24% in entrambe), le Marche (23%), il Piemonte (22%), il Friuli Venezia Giulia (21%) e la Lombardia (20%, ma 28% escludendo la città metropolitana di Milano; 2016, Istat). La terza è data dal fatto che l’export di prodotti materiali vale l’82% delle esportazioni complessive di beni e servizi. Il turismo, settore assai rilevante della nostra economia, vale oggi il 7% dell’insieme di beni e servizi esportati (2017, Banca d’Italia) di cui una quota parte è comunque turismo d’affari, a sua volta generato proprio dall’interesse commerciale di chi in Italia compra o vende all’interno delle filiere manifatturiere. Andrebbe poi considerato un quarto ordine di ragionamento, che riguarda la capacità del settore manifatturiero di attivare una serie di servizi necessari allo svolgimento dell’attività produttiva ma che dipendono da questa – a supporto dell’esportazione, dei trasporti, del marketing e della pubblicità, dello sviluppo e ricerca sui prodotti – valutandone l’effetto indiretto, che ne aumenterebbe ulteriormente la considerazione in termini di peso sul PIL. Ma per questo momento è sufficiente considerare quanto sopra detto.

È allora una buona notizia che nel giro del quinquennio 2012-2016 l’occupazione manifatturiera di alcune province del Centro Nord[1] sia tornata a crescere. Si tratta ovviamente di tendenze di breve periodo, ma che si può provare a leggere in comparazione a quanto avvenuto nei decenni passati considerandone anche la geografia. Nel periodo 2001-2011, infatti, il numero di addetti manifatturieri era calato in tutte le province dell’Italia centro-settentrionale. Sono invece ora 13, su 64, le province in cui cresce l’occupazione manifatturiera: Bolzano, Parma, Lodi, Cremona, Belluno e Prato con un tasso superiore al 3%; ad un tasso intermedio (tra l’1% e il 3%) Firenze, Gorizia, Arezzo e Vicenza; ad un tasso più contenuto (1% o meno) Piacenza, Grosseto e La Spezia. C’è poi un dato che differenzia ancor più il ciclo 2012-2016, per quanto di breve periodo, dal precedente: mentre tra 2001 e 2011 calava in tutte[2] le province del Centro Nord il numero di addetti sia della micro-piccola manifattura (0-49 addetti) che della medio-grande (50 addetti e più), nell’ultimo quinquennio si assiste a dinamiche differenziate nelle due macro-classi dimensionali, con ben 34 province in cui cresce il numero di addetti delle industrie manifatturiere medio grandi, mentre soltanto in 4 province cresce la piccola. Una crescita, quella delle unità produttive medio-grandi, che avviene soprattutto nelle regioni di Nord Est, dove si registra nello stesso periodo anche un consistente aumento del valore aggiunto del manifatturiero, e in Toscana. Non si tratta evidentemente di una dinamica spiegabile con la volatilità di province a bassa presenza manifatturiera. Infatti anche considerando le prime 23 province, quelle con almeno 20.000 addetti nella medio-grande manifattura, risulta in crescita il numero di addetti della medio-grande impresa in 11, circa la metà di esse. Va invece osservato il carattere regionale di questi fenomeni. In Veneto ed Emilia Romagna le province in cui cresce il numero di addetti della media grande manifattura sono più di tre quarti: in Veneto tutte, con eccezione di Rovigo e con Treviso sostanzialmente stabile con lieve segno negativo; in Emilia Romagna tutte, con eccezione di Ferrara e con Reggio Emilia sostanzialmente stabile con lieve segno negativo. In Lombardia la crescita degli addetti del manifatturiero medio-grande riguarda invece solo 4 province su 12, di cui solo 2 province su 8 oltre i 20.000 addetti. Analogamente in Piemonte, dove a crescere sono solo 3 su 8 province. Una situazione, quella della medio-grande manifattura lombarda e piemontese, su cui pesano in particolare una contrazione della provincia di Torino e le difficoltà di alcuni comparti provinciali tradizionali (es. tessile-confezionamento di Bergamo, Mantova e Cuneo e chimica-farmaceutica di Milano e Monza). Tra i settori che contribuiscono maggiormente ad una variazione positiva dell’occupazione nella medio-grande manifattura regionale figurano invece il tessile-confezionamento di Milano e la meccanica avanzato di Bergamo per la Lombardia, l’industria alimentare di Cuneo e la chimica di Alessandria per il Piemonte. La geografia emergente restituisce ancora una volta l’immagine di un Piemonte fortemente de-industrializzato dal punto di vista manifatturiero e di un asse padano più spostato in direzione sud (Emilia-Romagna) e verso Est a cui si aggiunge la continua espansione dell’industria della provincia di Bolzano e alcuni segnali di ripresa della Toscana.

Una buona notizia, dunque, tantopiù che la ripresa dell’occupazione manifatturiera avviene in controtendenza rispetto ai timori generati dalla salienza mediatica del tema della robotizzazione, atteso come fattore di declino tout court dell’occupazione nella manifattura e invece fattore di crescita da leggersi contestualmente ai processi di reshoring: produzione che rientra in Italia con più intensità di capitale e maggiore impiego di profili professionali elevati.

Ma quali sono le possibili implicazioni della crescita della medio-grande manifattura? Ovvero perché, al di là delle constatazioni più ovvie, è una buona notizia questa inversione di tendenza? Torniamo a osservare l’andamento del numero di addetti manifatturieri nelle regioni dell’Italia centro settentrionale. Gli anni Settanta sono quelli della nascita della cosiddetta Terza Italia, e vedono una crescita degli addetti manifatturieri che riguarda soprattutto la micro e la piccola impresa, spinta anche da processi di esternalizzazione della grande industria. Gli anni Ottanta portano a compimento il processo di riorganizzazione della produzione in chiave distrettuale, con una crescita degli addetti che interessa unicamente le micro e piccole imprese (ad eccezione di Piemonte, Liguria e Toscana, in cui gli addetti delle micro-piccole imprese manifatturiere calano), ed una crescita dell’occupazione manifatturiera complessiva soltanto in Veneto. Gli anni Novanta, con l’imporsi della globalizzazione, segnano un’inversione di tendenza: cala il numero di addetti della micro e piccola impresa in tutte le regioni tranne Friuli Venezia Giulia, Umbria e Marche, mentre torna a crescere la media e grande impresa in Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Marche, con l’effetto che solo in esse cresce il numero complessivo di addetti manifatturieri[3]. Nel decennio 2001-2011 sulle trasformazioni indotte dai fenomeni globali si innestano le due ondate di crisi coincidenti con i periodi 2008-2009 e 2012-2013, con l’effetto di una contrazione generalizzata dell’occupazione manifatturiera, che cresce soltanto in Trentino Alto Adige e in Toscana[4].

Una crescita occupazionale ad oggi di fatto confinata al solo comparto della medio-grande manifattura sembra rispondere a logiche analoghe a quelle che avevano iniziato ad affacciarsi negli anni Novanta: le sfide imposte dalla globalizzazione e dalla competizione internazionale richiedono di essere dimensionalmente strutturati per innovare, internazionalizzarsi, esportare.

E’ la fine della piccola impresa manifatturiera dunque? A fronte di una riduzione tendenziale dei suoi addetti che procede dagli anni ’90 sembrerebbe difficile affermare il contrario. Tuttavia, non si può trascurare il fatto che dietro alla contrazione storica della piccola impresa che si osserva nelle statistiche ci stia anche il superamento di un modello produttivo che viveva in stretta relazione con la grande industria in un rapporto di esternalizzazione di manodopera e contoterzismo messo in crisi dall’automazione prima e dalla globalizzazione poi, e ora dalla digitalizzazione. All’interno delle statistiche territoriali si fatica a scindere la coda delle micro e piccole imprese manifatturiere “pre-digitali” dalle dinamiche delle imprese manifatturiere “post-digitali” che pur ci sono e nelle quali le figure di chimici, ingegneri dei materiali, ingegneri elettronici e informatici sono parte significativa della manodopera dell’impresa. Per queste ultime è ipotizzabile una crescita ulteriore proprio in relazione alla crescita della media grande impresa. Vi è infatti un importante corollario. Le medie e grandi imprese in un contesto fertile dal punto di vista finanziario e formativo sono in grado di stimolare maggiormente la crescita delle competenze dei lavoratori, diffondere innovazione, intercettare domande complesse. Ovvero domande che proprio in virtù di questa loro complessità hanno un valore anche di mercato, che stimolano l’imprenditorialità, l’ingegno, e premiano economicamente la creatività . In contesti produttivi in cui ci sono forza lavoro dotata di competenze e capacità, diffusa cultura del fare impresa e un sistema di sostegno finanziario allo start up, la media e grande industria genera interesse, con la sua domanda, alla creazione di nuove imprese. Si tratta di piccola impresa che non fornisce servizio alla popolazione o, in modo convenzionale e adempimentale, alle imprese, ma si spinge nell’innovazione di prodotti e di processi costruendo una propria offerta. Ne discende uno scenario di policy quanto mai desiderabile. In un contesto di popolazione stagnante, in cui i consumi interni difficilmente possono dilatarsi oltre modo per quanto sostenuti e incentivati, creare nuova impresa e occupazione all’interno di filiere guidate dall’esportazione in settori ad alta innovazione è una strategia di buon senso.

La ripresa degli addetti attivi nella grande e media impresa, unitamente alla crescita del valore aggiunto e delle esportazioni, sono dunque segnali positivi e ove hanno luogo costituiscono un concreto punto di partenza e di appoggio su cui ricostruire una promessa di non marginalizzazione, di non perifericità, di protagonismo per le giovani generazioni. Perciò, a fronte di sfide complesse, interpretate e affrontate dagli attori più strutturati del sistema industriale, si creano realmente e concretamente gli spazi di impiego, anche con un respiro internazionale, per nuove generazioni di collaboratori e opportunità per nuovi imprenditori.

Figura 1. Tasso di variazione provinciale 2012-2016 degli addetti alla manifattura nelle unità locali con 50 addetti e più

Fonte: elaborazione su dati Istat [5]

Tabella 1. Tasso di variazione % addetti alla manifattura per periodo e classe dimensionale[6]

Tabella 2. Addetti alla manifattura per classe dimensionale – 2016

[1] Sono state incluse nell’analisi le seguenti regioni: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche.

[2] Con la sola eccezione di Rimini.

[3] Feltrin P., Maset S. (2012), Le onde lunghe dello sviluppo territoriale del Nord, in Perulli P. (a cura di), Nord. Una città-regione globale, Il Mulino, Bologna

[4] Maset S. (2014), Opportunità e resistenze nei nuovi contesti economici e produttivi, in Quaderni della Fondazione Francesco Fabbri, 2

[5] Tra 2012 e 2016 il numero di addetti della medio-grande manifattura delle province di Treviso (-0,02%) e Reggio-Emilia (-0,4%) è tecnicamente negativo ma sostanzialmente stabile.

[6] Per coerenza con la mappa (e i dati riportati sopra) le variazioni nei periodi 2001-2011 e 2012-2016 comprendono una redistribuzione stimata degli addetti interinali (figura introdotta nel 1997). Analogamente, nella tabella successiva, i dati 2001, 2011 e 2016.

Che cosa rende attrattiva una citta? I dilemmi contemporanei per il Veneto policentrico

[di Sergio Maset]

Le singolarità – siano esse uomini o aziende straordinarie – contano eccome. Tuttavia, la sostenibilità di una società non si misura nel grado di successo di pochi eccellenti quanto nella sua capacità di trasformare i buoni esempi in opportunità e queste in occasioni e strumenti di crescita diffusa. Per questo la relazione tra sistema produttivo, istituzioni, scuole e famiglie va costruita e alimentata. Una città può dirsi tale, a prescindere dalla sua effettiva dimensione, se riesce ad essere il luogo in cui questa consapevole relazione viene rinnovata e si traduce in rappresentanza.

Dopo quasi mezzo secolo di fuga dalle città più grandi, per la prima volta negli ultimi anni assistiamo ad una loro rinnovata crescita demografica. Si può provare a comprenderne le ragioni considerando l’effetto combinato di una serie di fenomeni di medio e lungo periodo. Il primo è dato dal fatto che le città, grazie a decenni di normative e investimenti sui motori delle auto, sul rinnovo degli impianti di riscaldamento, sulle emissioni industriali e, non da ultimo, attraverso lo spostamento al di fuori delle città dell’industria pesante, oggi non sono più le camere a gas che erano sino a qualche decennio fa. Il secondo fenomeno riguarda il mercato immobiliare che a fronte di un rallentamento della spinta demografica e con il mondo del terziario in profonda trasformazione ha visto abbassarsi le rendite e dunque i prezzi di affitti e vendite. Insomma, dopo una lunga fase in cui le città erano appannaggio di benestanti, banche e assicurazioni, il mercato torna ad essere appetibile per un ceto medio un po piu giovane e per negozi nuovamente a dimensione di vicinato. Considerato che in molte città si pone la necessità di metter mano a progetti di rinnovamento urbano (dai padiglioni fieristici alle caserme passando per mercati generali e fabbriche abbandonate) c’è la possibilità di sostenere ulteriormente una crescita demografica delle città con politiche abitative che coniughino qualità, centralità e disponibilità del portafoglio delle giovani famiglie.

La parte più complessa e stimolante della faccenda sta nel fatto, e qui vengo più direttamente al Veneto, che dopo quarant’anni di crescita generalizzata della domanda di forza lavoro, nell’ultimo decennio siamo in una situazione di sostanziale stagnazione a cui si aggiunge l’invecchiamento della popolazione per cui il rapporto tra occupati e popolazione anziana continua a precipitare. La situazione è per certi versi paradossale: da un lato non possiamo più permetterci di estromettere le donne dal mercato del lavoro e dall’altro dobbiamo trovare il modo di conciliare la loro maggiore inclusione con un aumento del numero di figli per ogni famiglia. Insomma, rivoluzionare l’immagine della famiglia. Non si tratta ovviamente di una sfida solo veneta: vale anche per le altre regioni del nord, con l’eccezione del solo Trentino Alto Adige.

Con l’arresto della spinta demografica e le molteplici trasformazioni del terziario (digitalizzazione dei servizi e ecommerce in primis) i prezzi nei capoluoghi di provincia diventano più accessibili e la popolazione riprende a concentrarsi nella città. Ma se ciò vale per i capoluoghi, che continuano localmente a svolgere il loro ruolo di città – in Veneto persino Belluno e Rovigo sono cresciuti nell’ultimo decennio – la sfida appare del tutto aperta per le piccole e medie cittadine, tra i 20 e i 40 mila abitanti. Che cosa può rendere attrattiva una di queste città? Ogni città, grande o piccola, che aspiri a ricoprire fattivamente questo ruolo, deve interrogarsi su come perseguire 3 obiettivi. Prima di tutto creare condizioni durature di espansione economica. Va rifiutata la retorica della decrescita felice mentre sono da perseguire forme sostenibili e responsabili di espansione, di crescita economica. Il secondo obiettivo è quello di inclusione che si traduce nella capacità di impiegare efficacemente le risorse umane di un dato territorio, donne e giovani in primis. Il terzo obiettivo è quello di conciliazione che significa rispondere al bisogno delle persone di vivere al meglio la pluralità di dimensioni della loro esistenza: conciliare dunque cura famigliare, impegno lavorativo, partecipazione sociale, ricreazione, cura del proprio benessere fisico.

Provando a scendere dunque nell’esperienza di analisi di Vittorio Veneto, il primo obiettivo, l’espansione, richiede di prendere consapevolezza che il presente del sistema produttivo della città si caratterizza ancora per una fortissima presenza industriale: il 40% degli addetti che operano nel comune lavora nell’industria manifatturiera, con una larghissima prevalenza di grandi imprese. In generale, queste rappresentano una risorsa per tutto il sistema produttivo in quanto sono le uniche in grado di stimolare l’acquisizione di ulteriori competenze da parte dei lavoratori, di sostenere la diffusione di innovazione, la concreta nascita di startup innovative oltre ad alimentare un indotto locale di piccole imprese. Ed è con aziende di grande dimensione che la città può sperimentare concretamente forme di innovazione sociale finalizzate a realizzare una maggiore inclusione dei giovani e delle donne. Ciò deve tradursi ad esempio in una più efficace attività di orientamento scolastico per i ragazzi delle scuole medie e le loro famiglie ma anche in una rete di servizi per la prima infanzia e sostenendo forme di smart working. Un territorio si può definire lungimirante nel momento in cui riesce a valorizzare e ottimizzare le sue esperienze di valore incluse quelle maturate sul versante dei servizi sociosanitari. Trattandosi di una città che ha molto da offrire in termini di qualità degli spazi urbani, le sue concrete possibilità di crescita sono legate alla capacità di trattenere e attrarre giovani famiglie facendo leva anche sulla vicinanza del centro storico al casello autostradale e sul rilancio del collegamento ferroviario con Treviso e Venezia. Infine, una città che si rende attraente agli ospiti, ai lavoratori e ai visitatori delle sue imprese attraverso servizi e proposte di qualità per il benessere, la ristorazione e il tempo libero diventa più interessante anche per le giovani famiglie.

Il Veneto, lontano dalla programmazione, affamato di innovazione

[di Sergio Maset]

Quando 25 anni fa quotidiani, riviste e pubblicazioni di settore mettevano in risalto il ruolo dell’economia distrettuale per l’impetuosa crescita socio-economica del Veneto e il suo emergere in posizione di primo piano nel panorama economico italiano, lettori più e meno addentro alla sfera economica “scoprivano” non solo l’esistenza, sul territorio veneto, di impianti produttivi appartenenti a grandi marchi leader a livello mondiale, ma anche che quei marchi erano di proprietà veneta: Tecnica (fondata a Montebelluna nel 1960), De’ Longhi (Treviso, 1902), Veneta Cucine (Biancade, 1967), Luxottica (Agordo, 1961) per citarne solo alcune. Ma molti di più sono infatti i brand noti già allora a livello internazionale.

La scoperta di questa dote di capacità produttiva e appeal a livello mondiale ha rappresentato forse, anche per mano di chi ne ha proprio visto l’utilità in questo senso, una chiave di volta nella narrazione del Veneto, da territorio rurale a territorio paradigma del modello distrettuale, fortemente orientato all’export. Si va dal racconto di Giorgio Lago alle provocazioni di Gian Antonio Stella, dribblando tra le polemiche televisive con Michele Santoro. Questo è stato sicuramente il portato maggiore di quella lettura sociologica del sistema produttivo veneto: sancire la discontinuità tra la rappresentazione di un Veneto da cui si fuggiva a quello di un Veneto di cui essere orgogliosi.

Ma quale altro ciclo si è aperto in quel momento? Negli anni in cui il Veneto ascoltava la narrazione del suo essere terra di marchi famosi, e non solo di lavoro, si completava l’apertura dei paesi dell’Europa orientale e la delocalizzazione diventava fenomeno diffuso, un vero e proprio modello di organizzazione produttiva. Se dunque la narrazione interviene a sancire il passato, allora, ciò di cui si parlerà oggi è la conclusione del ciclo di delocalizzazione produttiva quale strategia di vantaggio di costo. Oggi ciò che va in scena è il riconoscimento che altre strategie stanno pagando e che per queste contano davvero le competenze e la preparazione dei collaboratori e la capacità dell’impresa di governare la sua complessità. Dunque, innovazione e tecnologia, ma anche responsabilità e buon gusto.

Se negli anni ’90 la scoperta del Veneto come fucina di grandi marchi ha costituito un salto di coscienza collettiva rispetto ad un senso comune intriso di rievocazione nostalgica e dolorosa, viene da chiedersi cosa andare a ricercare nel rapporto tra imprese e società di oggi, quale scostamento dai luoghi comuni possa spingere ad un altro salto. Nella misura in cui le parole chiave stanno in tecnologia, innovazione, responsabilità e buon gusto, allora, probabilmente, bisogna ricercare la capacità di questo ecosistema di produrre cultura e sapere: riconoscendola e rinforzandola. Ad esempio, dimostrando che non è per nulla vero che i giovani veneti, per trovare un profilo professionale soddisfacente, devono andare all’estero; che non è vero che le aziende venete non fanno innovazione; che non è vero che la scuola non fornisce i profili utili alle aziende e che le risorse umane di eccellenza vanno solo nelle città.

In questo ragionamento l’area pedemontana costituisce un contesto emblematico: lontano dal corridoio urbano della A4, ha vissuto in pieno sia il ciclo dell’industrializzazione diffusa che la fase della delocalizzazione. Oggi si trova a vivere la sfida tecnologica senza avere la fascinazione delle città, in un momento in cui i grandi centri non sono più emblema del grigio ma diventano laboratorio di sostenibilità e vi si innestano imprese e lavoro. Si potrebbe dire che la locomotiva – usando una immagine cara alla retorica distrettuale – adesso non sta più esclusivamente nella pedemontana. I riflessi di queste tendenze si possono leggere nei dati di popolazione ed occupati dai quali sembra emergere un rallentamento di questa area pedemontana rispetto al Veneto nel suo complesso.

Non si tratta però di una nuova crisi, bensì il segno tangibile di trasformazioni che ovviamente sono già in corso. Si è chiuso il ciclo narrativo delle 3 C – capannone, chiesa, campo, che in qualche modo rappresentava l’idea della evoluzione dal mondo rurale. Il nuovo ciclo è da pensarsi intorno al concetto di relazione, tra persone, idee e mercati. La rappresentazione più iconografica della pedemontana è proprio la Superstrada. Intorno ai suoi futuri caselli – entro un raggio di 20 minuti – vivono già oggi oltre 900 mila abitanti e le imprese che vi hanno sede impiegano quasi 340 mila persone. Domani, i tempi di percorrenza con cui si spostano lungo il suo asse verranno dimezzati rispetto a quelli di oggi e questo darà vita ad una geometria nuova anche del mercato del lavoro. L’icona dunque per questa aree non è un luogo, ma un servizio, per collegare persone, interessi, formazione e lavoro. La consapevolezza di questo deve servire ad accompagnare responsabilmente l’evoluzione del territorio.

UN GOVERNO PER LA RIFORMA FEDERALISTA

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova il 6 marzo 2018]

La rappresentazione geografica dei risultati di quest’ultima elezione ci restituisce una fotografia in cui il fattore davvero prevalente è il dualismo Nord-Sud, con da una parte un Nord a trazione Lega “nazionale” di Salvini – un partito che poco ricorda la Lega Nord – e dall’altra un Sud pentastellato costruito su promesse di strepitoso assistenzialismo (reddito di cittadinanza e via discorrendo). A perdere, inutile a dirlo, i due partiti più certamente nazionali (Forza Italia e il Partito Democratico), avulsi per tradizione sia da narrazioni fortemente localiste che nazionaliste.

Una lettura non convenzionale dovrebbe tuttavia suggerirci che l’affermazione dei Cinque Stelle è indebolita potenzialmente e forse irrimediabilmente dalla sua geografia. In Italia un partito del Sud costruito sulle promesse di una economia di assistenza non è credibile rispetto ad un qualsivoglia obiettivo di sviluppo del paese né, tanto meno, è sostenibile per la finanza pubblica. E lo è ancor meno di quanto lo sia un partito del Nord. Ciò è vero per una ragione molto semplice: tanto più un partito del Sud preme dal punto di vista elettorale in quanto bacino di voti, tanto più si indebolisce, perché rianima un’istanza – che diviene a quel punto separatista – del Nord. Mentre all’autonomia del Nord fa da contraltare la richiesta di perequazione a favore del Sud, richiesta finora sempre rispettata, un rinforzo delle istanze assistenzialiste del Sud genererebbe oggi una irrimediabile chiusura da parte del Nord.

L’unica reale risorsa politica che mi pare emergere in questo scenario è costituita dal processo di riforma autonomista attuato in questi ultimi mesi dalle tre regioni Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Ed è l’unica perché è quella che realisticamente può porre un limite al rischio di allargare ulteriormente il solco tra Nord e Sud, senza peraltro cadere in una retorica neo unitaria (“il noi Italiani”) costruita su di un insostenibile isolazionismo verso l’esterno, alla Trump o alla Brexit, per intenderci, che ben poco interessa alle imprese e ai lavoratori.

In questa prospettiva c’è da domandarsi se l’opzione sostenibile non sia un governo di scopo da costruirsi intorno ad un programma di attuazione del disegno autonomista regionale sulla base della piattaforma a cui sono giunte Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Tre regioni di tradizione e cultura politica ben distinta accomunate dal fatto di essere il motore economico del paese, e interessate a realizzare l’autonomia come strategia per rispondere più efficacemente ad obiettivi di competitività economica globale: da sole, è bene ricordarlo, realizzano il 55% del valore dell’export nazionale.

L’opzione alternativa tratteggia foschi scenari, in cui Governi deboli lascerebbero mano libera non tanto alle derive populiste quanto all’alta burocrazia del Paese, attribuendo di fatto a questa il ruolo di garante della salvaguardia delle sue finanze e della sua unità. Un incubo in cui la rappresentanza generale è rassegnata al governo di una tecnocrazia grigia e gattopardesca.

COLTIVARE LA PARTECIPAZIONE POLITICA LOCALE

[in TESSENDO IL FUTURO. Nuove relazioni per la città di Vittorio Veneto

a cura di Sergio Maset, PostEditori, Padova, 2018]

Le pagine che seguono traggono lo spunto da uno studio sulle caratteristiche socio-economiche della città di Vittorio Veneto, commissionato dall’amministrazione comunale della città. Lo studio ha fatto emergere una sorta di distonia tra il presente produttivo, caratterizzato da numerose realtà industriali attive e dinamiche e la narrazione che la città rende di sé, talvolta più orientata alla rievocazione nostalgica che al presente. Tuttavia, anche la comprensione del presente non basta per volgersi al futuro. Per ragionare di futuro bisogna condividere interrogativi e confrontarsi su prospettive, interessi e desideri. A costo di suonare retorico, è sempre la politica a dover tessere il futuro. Avere la possibilità di una committenza che stimola e pone domande di prospettiva è una fortuna non comune di questi tempi. Un riconoscimento va dunque alla volontà dell’amministrazione di Vittorio Veneto per aver portato avanti questo lavoro, agli uffici comunali che hanno collaborato alla sua realizzazione e a quanti con le loro riflessioni hanno arricchito i contenuti e le prospettive del volume.

Alla base del dialogo vi è il lavoro di analisi socioeconomica della città e del suo territorio, le cui principali risultanze sono riportate nel Capitolo 1. Tale analisi restituisce per Vittorio Veneto un quadro robusto nel quale delineare un percorso di crescita. L’aggettivo “robusto” viene qui utilizzato in una duplice accezione: innanzitutto robusto significa basato su dati, evidenze empiriche, tendenze reali; e questi dati – ecco qui la seconda accezione di robustezza – restituiscono un territorio caratterizzato da tutta una serie di asset strategici che possono essere fatti agire per sostenere la crescita.

In che senso, e per quale obiettivo, si ragiona di utilizzo degli asset strategici? Su questa domanda si innesta la riflessione politica in senso stretto: quali siano le condizioni per una crescita della città. Ovvero, quali siano le modalità e le logiche secondo cui una città definisce le condizioni della sua sopravvivenza e della sua crescita, in quanto organizzazione finalizzata al miglioramento della vita dei cittadini. Per ogni città, infatti, la crescita si sostanzia nel creare ai propri cittadini le condizioni per la loro sostenibilità nel tempo. Questo approccio richiede evidentemente una prospettiva temporale di medio periodo: ciò vale a dire, non solo porsi l’obiettivo di risolvere i problemi contingenti ma creare oggi le condizioni perché nel domani vi sia sostenibilità. La sostenibilità non significa invarianza: al contrario, significa evoluzione guidata dalla volontà di continuare ad “essere città”. Proviamo dunque a capire cosa intendere per crescita.

Crescere, per una città, significa prima di tutto crescere sul versante demografico. La crescita demografica è l’espressione della capacità di trasmettere prospettiva, desiderabilità, valore. Esiste, da questo punto di vista, un elemento significativo che caratterizza la città e che è ciò che determina la distinzione tra luoghi e non luoghi: la caratteristica dei luoghi, principalmente, è la non fugacità. Io divento cittadino di un luogo nel momento in cui lo vivo non transitoriamente. Essere città non è nemmeno un fatto quantitativo. Da questo punto di vista la consistenza numerica non è la caratteristica che distingue la città come luogo rispetto ai non luoghi. L’aeroporto di Venezia vede passare milioni di passeggeri ogni anno, ma non è certo una città. In questo senso la componente demografica, la cittadinanza, rileva per i luoghi in maniera completamente diversa dai transitanti – persone che fruiscono del luogo solo per un passaggio – come anche dagli utilizzatori – persone che fruiscono del luogo per lo svolgimento di una specifica funzione -, che possono essere in numero anche enormemente maggiore ma non sostanziano per sé una comunione di interessi.

Quindi la crescita significa prima di tutto crescere da un punto di vista demografico, e in particolare nelle componenti in età fertile, ovverosia le giovani famiglie. Quando un cittadino sceglie di risiedere, pur avendo ovviamente la possibilità di cambiare, compie la scelta riconoscendo una prospettiva di non transitorietà ovvero di potenziale stabilità nel tempo. L’orientamento alla sostenibilità di una città come Vittorio Veneto si misura dunque nella capacità di attrarre la componente giovane della popolazione: in questo senso, la capacità di una comunità e della sua amministrazione di fornire elementi atti a favorire il processo di autonomizzazione dai nuclei familiari di origine diviene anche, di riflesso, capacità di attrarre giovani famiglie, di incrementare la natalità, di ri-densificare la residenzialità nel centro urbano. Il tema dell’autonomia dei giovani si conferma strettamente e prioritariamente collegato alla costruzione del proprio percorso professionale lavorativo. Un primo passo necessario per l’autonomia consiste, quindi, in un’offerta lavorativa “di qualità” (ovvero, con caratteristiche di stabilità, valorizzazione del contributo individuale, possibilità di crescita) tale da stimolare la popolazione giovane a sviluppare nell’area vittoriese il proprio percorso di vita. E per questo, oltre alla presenza di un sistema di istruzione e formazione efficiente, occorre anche capacità di tessere relazioni, di ri-vivificare un tessuto di associazionismo, partecipazione che per i giovani diviene spazio di crescita e insieme arena di opportunità professionali.

Il definirsi cittadino di un luogo ha un significato che si intreccia strettamente con la dimensione territoriale nell’elaborazione politica. Quest’ultima tende generalmente ad articolarsi per ambiti tematici (industria, formazione, sanità ecc.) ed a svilupparsi verticalmente, spostando essenzialmente il livello del dibattito alla scala nazionale se non europea, secondo una logica per cui si discute dove si prendono le decisioni e dove vi sono le risorse economiche per alimentare le necessarie competenze. Tuttavia il prevalere della logica di pertinenza e competenza apre un dilemma: sulla base di quale principio si possono creare e garantire le risorse all’attività di elaborazione politica locale? Che questa abbia un suo senso pare evidente, perché se non qui e ora, allora quando e dove devono essere elaborate le scelte che riguardano il cittadino di Vittorio Veneto? Non si tratta evidentemente di un rigurgito neo-municipalista quanto di avere consapevolezza che la partecipazione politica richiede di mantenere animata la sua componente locale. Muoversi esclusivamente secondo il principio di pertinenza amplifica infatti a dismisura la distanza tra lo spazio della vita e quello dell’elaborazione e porta a circoscrivere la pratica di elaborazione politica entro circuiti limitati, indebolendo progressivamente la capacità di un territorio di generare innovazione di pensiero e agire un’efficace azione di rappresentanza.

Ne discende che il dilemma con cui dobbiamo fare i conti sta nella possibilità di trovare un equilibrio tra l’applicazione di princìpi di competenza e di pertinenza (che tendono a seguire logiche verticali), e la necessità di agire luoghi e momenti di elaborazione politica locale evitando di creare delle burocrazie aggiuntive. E tutto ciò riporta al tema di questo lavoro. Nel dialogo sulla città si affrontano i temi del rapporto tra industria e formazione, delle soluzioni per un invecchiamento attivo della popolazione, di istruzione, di infrastrutture: tutti temi che hanno una competenza finanche europea. Qui la domanda è: possiamo, per questo, permetterci che di questi temi se ne discuta solo a Bruxelles, o solo a Roma, o solo a Venezia? Certamente no: il tessuto locale per poter esprimere un’efficace rappresentanza deve riuscire a declinare in una prospettiva generale gli interessi specifici che emergono nel suo proprio ambito: che si tratti di elettrificazione della linea ferroviaria, di collegamento tra autostrada e zona industriale o di finanziamento agli istituti superiori.

Proviamo dunque a delineare i temi per una possibile agenda. Se la crescita significa innanzitutto crescita demografica nelle componenti in età fertile, ovvero giovani e famiglie, è necessario provare a interrogarsi su quali sono i fattori che rendono una città attraente. Le città hanno sempre una funzionalità frammentata, inclusiva, necessariamente conciliativa, democratica e plurale. Non può esserci un’àncora prevalente ed esclusiva che trattiene i cittadini e ne spiega la crescita. Le città con ancore funzionali prevalenti, finiscono per essere esse stesse per lungo tempo non luoghi, inserite in altre soggettività urbane: ne sono esempio Sesto San Giovanni rispetto a Milano e alla Breda, Marghera rispetto a Venezia e al Petrolchimico e, per certi versi, anche Pordenone rispetto all’Electrolux. Ma non è certamente il caso di Vittorio Veneto. Com’è allora la città che attrae? Anche se ognuno di noi può essere attratto per varie ragioni, le analisi di geografia economica e di sociologia del territorio ci dicono due cose. In prima istanza, sarà la prospettiva di occupazione a guidare l’individuazione di un’area potenziale in cui risiedere: ma sarà poi la valutazione dell’attrattività sociale di un determinato luogo a determinare la scelta di effettiva localizzazione. In altri termini: posso decidere di vivere in una certa zona del Veneto, e in un certo ambito della provincia, ma poi il fatto di scegliere un Comune piuttosto che un altro dipende dall’offerta effettiva, immobiliare, di servizi, di qualità del vivere. [1]

Va detto, e questo è un dato recentissimo, che a fronte di una tendenza che dagli anni Settanta ai primi anni Duemila ha visto una forte propensione a uscire dalle grandi città, ora la città torna ad attrarre. La crisi delle grandi città ha raggiunto il suo apice negli anni Novanta, per poi arrestarsi. In Italia la prima città a vedere l’inversione è Milano, ma si tratta di una dinamica che sta iniziando a interessare tutte le grandi città del Nord Italia. Cosa c’è dietro questa tendenza? In controluce si intravvedono varie componenti: una nuova declinazione del moto futurista verso la modernità, reinterpretato però intorno ai concetti di sostenibilità, di attenzione per il benessere fisico e culturale. Cosa sta succedendo? Succede che la città ha smesso di essere luogo grigio e anzi, diventa il laboratorio di un migliore equilibrio, di un uso più efficiente delle risorse, di una maggiore attenzione alla propria salute, alla cura del corpo, alla ricerca del bello e dell’arte. La città non è più emblema del grigio. Al contrario, è emblema del green, e della sostenibilità. È il cantiere in cui si elaborano forme di conciliazione tra ambiente, esigenze delle persone ed economia. Ed è interessante vedere che la fuga dalle città si è arrestata. Forse questi sono i primi segni dell’emergere di un nuovo ceto medio, i cui esiti si vedranno forse di qui a dieci anni. Una nuova classe che inizia a sostanziarsi ricercando intanto la residenza nella città, su una nuova base, forse più democratica, certamente più accessibile.

È indubbio che la fuga dalle città è stata in passato anche una fuga per la ricerca di una migliore qualità della vita. Vivere bene nelle città degli anni Ottanta richiedeva di essere benestanti. A parità di risorse nominali, il progressivo indebolimento economico del ceto medio ha spinto le giovani coppie a spostarsi nelle periferie e da qui nelle prime, seconde e finanche terze cinture delle città. Adesso sembrano gettarsi i semi per una nuova fase rigenerativa delle città. Si tratta di prendere atto della fine del processo di gentrification dei centri, cioè quello per cui le aree centrali delle città hanno assunto un mono profilo funzionale – solo servizi finanziari, banche, assicurazioni e boutique – e sociale, solo famiglie ad alto reddito, escludendo il ceto medio e certamente le giovani famiglie. Emergono ora nella città spazi per forme e luoghi di consumo e produzione nuovi, e per ripensare ad una residenzialità più accessibile.

Anche Vittorio Veneto potrebbe trarre vantaggio da questa prospettiva: pur non rientrando nell’ambito delle grandi città, ha avuto una dinamica molto simile ad esse: ha vissuto storicamente grandi industre al suo interno; le sue fasi di de-urbanizzazione hanno seguito i tempi delle grandi città. E come altre condivide un presente industriale molto più moderno, avanzato e internazionalizzato di quanto si tende a raccontare. Da qui dunque la sfida di raccogliere e sviluppare il senso contemporaneo dell’essere città: un luogo di restituzione, di incontro e di elaborazione.

La struttura del volume è espressione di un lavoro a più mani. Si parte dall’esposizione dell’analisi economica e sociale; segue una riflessione, curata da Giovanni Napol sulla relazione tra le componenti produttive della città e sull’interazione di questo presente industriale con il terziario professionale e di alto profilo tecnico. Segue la testimonianza di Chiara Mazzer, che vive la realtà vittoriese da imprenditrice, volta a ridare linfa alla relazione tra città e siti produttivi, non in quanto semplicemente coesistenti su uno stesso territorio, ma in quanto portatori di istanze e suggestioni per le quali è vitale trovare una conciliazione. Un altro grande tema di riflessione, sviluppato con il contributo dei presidi di tre istituti scolastici superiori, è quello del rapporto con l’istruzione e la formazione tecnica e scientifica. La questione è vista come rapporto tra tre sfere: la scuola, le famiglie (e questo significa i cittadini, che diventano anche stakeholder rispetto al sistema industriale e produttivo), e il mondo imprenditoriale. Un tema complesso, talvolta banalizzato nella retorica attuale. Il mantenimento di una adeguata vita della città e nella città, mentre l’invecchiamento della popolazione pone sotto i riflettori la necessità di ripensare ai servizi socio-sanitari, è al centro della riflessione proposta da Maurizio Castro. Il compito di leggere tra le righe degli approfondimenti e del dibattito gli stimoli concreti con cui sviluppare un’agenda programmatica della città di Vittorio Veneto è affidato nel capitolo finale a Roberto Tonon.


[1] Feltrin P., Maset S. (2012), Le onde lunghe dello sviluppo territoriale del Nord, in Perulli P. (a cura di), Nord. Una città-regione globale, Il Mulino, Bologna.

Feltrin P., Maset S., M.Zanta, (2014), La sfida della modernità negli ambienti alpini, Il Poligrafo, Padova.

Maset S., (2015) Le densità inattese. Piattaforme produttive implicite nella provincia di Treviso, Quaderni dell’Osservatorio, Osservatorio Economico e Sociale di Treviso, Treviso

DECENTRAMENTO? C’È TANTO DA FARE

[di Sergio Maset

Pubblicato nella rivista Fare Impresa – ottobre novembre 2017]

E’ sempre buona regola in particolare quando il tema è complesso, incominciare un ragionamento mettendo ordine tra i termini e così faccio ora richiamando intanto la distinzione tra potestà legislativa e titolarità amministrativa. Semplificando sino al limite di banalizzare possiamo dire che la prima si riferisce a dove vengono prese le decisioni che portano a formulare le leggi, e in relazione a che tema. La seconda, la titolarità amministrativa, si riferisce al livello territoriale cui spetta la competenza di governare quali aspetti della pubblica amministrazione.

Partiamo da quest’ultimo punto: l’amministrazione e il governo. La spesa pubblica è composta per i 20% dal costo del lavoro del pubblico impiego, per il 33% dalle pensioni; il restante 47% è distribuito tra acquisto di beni e servizi – in questo ambito gran parte è rappresentato dal servizio sanitario – investimenti e infine dal pagamento di interessi sul debito. Di conseguenza entrare nel merito dell’amministrazione della spesa pubblica, della sua ripartizione e quindi anche del suo governo, significa inevitabilmente entrare nel merito della contrattazione.

Da questo punto di vista è rilevante l’emergere nel dibattito regionale di una crescente attenzione alla contrattazione decentrata; tuttavia non si può affrontare seriamente questo tema senza porre sul piatto tanto la contrattazione del privato quanto quella del pubblico. Bisogna essere consapevoli che nell’ambito della pubblica amministrazione la situazione attuale è quanto di più lontano vi possa essere da una contrattazione regionale; se infatti prendiamo in esame la relazione tra Pil pro capite e retribuzione media, nel comparto privato emerge una perfetta correlazione; più è basso il Pil pro capite, più sono basse le retribuzioni e viceversa. Al contrario, nel comparto pubblico le retribuzioni sono omogenee su tutto il territorio nazionale.

Questo fatto dovrebbe stimolare una riflessione sulla possibilità che si creino, proprio in ragione di forzata omogeneità, elementi di sperequazione, anche all’interno dello stesso comparto pubblico. Pertanto: 1. intervenire seriamente sull’amministrazione, e quindi sulle deleghe amministrative, richiede di intervenire anche sulla contrattazione del lavoro; 2. è opportuno interrogarsi se e in che misura abbia ancora senso la totale omogeneità contrattuale nel pubblico a livello nazionale, senza tenere conto dei differenziali regionali in termini di costo della vita, di retribuzioni medie nel comparto privato e di altri fattori di disparità.

Un secondo tema che vorrei richiamare riguarda invece il rapporto tra sussidiarietà e la capacità di risposta effettiva alle esigenze di un territorio. La domanda è: una maggiore sussidiarietà, ovvero uno spostamento del baricentro decisionale più vicino al territorio, garantisce di per sé una maggiore efficacia? La risposta è: non c’è nessun automatismo. Basti pensare ad esempio alle competenze dei Comuni in materia urbanistica, e al ruolo di regolatore che le regioni hanno a tutti gli effetti in materia, a fronte delle domande di riduzione della burocrazia. Questa “sussidiarietà” non ha portato automaticamente a significativi passi avanti verso la semplificazione dei regolamenti comunali, né in direzione di una loro armonizzazione: ogni Comune è una libera repubblica con la sua conseguente burocrazia. Lo stesso vale per tutte le altre materie. Prendiamo l’istruzione: in questo momento sentiamo spesso richiamare il tema dello scollamento tra i fondamentali capisaldi famiglie-imprese-istituzioni scolastiche. Le famiglie orientano i figli nel tentativo di perseguire un miglioramento della loro condizione sociale; le imprese lamentano il disallineamento tra le competenze richieste e quelle disponibili; le scuole – come pure le università – sembrano talvolta animate più da una competizione sull’acquisizione dello studente che non dalla effettiva applicabilità della loro offerta formativa. Ora, il fine dell’azione di governo deve essere migliorare l’incontro tra queste esigenze. La domanda è: in che misura e in che modo una maggiore sussidiarietà, una maggiore vicinanza della potestà amministrativa al livello locale, aumenta la capacità di risposta a queste domande?

Infine, per tratteggiare il terzo punto, quello relativo all’associazionismo comunale, osserviamo alcuni chiaroscuri nell’esperienza diretta di innovazione nell’organizzazione dei Comuni. In provincia di Vicenza, nei 70 Comuni al di sotto di 5000 abitanti, il 42% della spesa corrente comunale è catturato dalle funzioni generali di amministrazione e gestione: dalla ragioneria ai tributi, dall’anagrafe all’ufficio tecnico; in sostanza, per il funzionamento stesso della macchina amministrativa. La percentuale, nei Comuni oltre i 10.000 abitanti, scende al 30%; al 19% nei 5 Comuni oltre i 25.000 abitanti. Nelle 46 amministrazioni sotto i 3000 abitanti la spesa per le funzioni generali è di circa 330 € all’anno per abitante; nei Comuni oltre i 25.000 scende a circa 150 € per abitante: meno della metà. Questo mette a disposizione maggiori importi da spendere negli ambiti dei settori sociali, del territorio, e per la sicurezza. Come è possibile ridurre l’incidenza delle spese “fisse” di gestione? Una possibile soluzione è rappresentata dalla gestione in forma associate delle funzioni generali mediante le Unioni dei Comuni. Queste tuttavia, nei pochi casi in cui sono state realizzate, sono rimaste ben lontane dal gestire in forma associata le funzioni generali, proprio quelle per le quali i dati suggeriscono rilevanti economie di scala. In una provincia dove quasi il 60% dei comuni ha meno di 5000 abitanti, è possibile liberare risorse da poter reinvestire sempre a livello comunale, a condizione, anche con l’ausilio delle province, di gestire le funzioni generali mediante unioni di comuni, di adeguata dimensione, alla scala, ad esempio, dei vecchi distretti sanitari. Le stime di una apposita simulazione infatti indicano che, organizzando le funzioni generali non per singolo comune ma in forma associata per più comuni si potrebbero liberare risorse da rimettere in gioco per il territorio intervenendo nel miglioramento dei servizi stessi. Una simulazione prudenziale restituisce un potenziale di risparmio di oltre 31 milioni anno nella sola provincia di Vicenza.

Il ragionamento sviluppato fin qui evidenzia dunque come le variazioni negli equilibri amministrativi possono essere volani di sviluppo e innovazione solo nella misura in cui sono accompagnate da un cambiamento nel rapporto tra amministrazione e rappresentanza. La definizione degli ambiti di maggiori competenze dovrà essere un passaggio collettivo, un percorso che definisca più ampiamente il rapporto di competenze tra le regioni e lo stato. Questo percorso non potrà essere realizzato restando circoscritto nell’ambito del confronto politico-amministrativo. Deve esserci infatti un obiettivo di miglioramento della vita dei cittadini e delle imprese e questo è perseguibile a condizione che vi siano organizzazioni di rappresentanza efficaci e consapevoli del loro ruolo propositore nei confronti dell’attività amministrativa e legislativa.

LA RAZIONALIZZAZIONE CIRCOSCRIZIONALE DEGLI ENTI TERRITORIALI LOCALI IN EUROPA E IN ITALIA

 [di Sergio Maset Giugno 2017

in CIRCOSCRIZIONI TERRITORIALI. Riflessioni a settant’anni dal progetto di Adriano Olivetti(a cura di) Alessandro Bove e Angelo Pasotto) CLEUP, Padova, 2017]

Chiunque si occupi di politica anche solo per passione o interesse culturale avrà osservato come spesso il territorio costituisce un facile elemento su cui provare a costruire un’azione politica. Nel corso degli anni ’90 e ancora più nei primi anni 2000, quello di “territorio” è stato un concetto frequentemente utilizzato dalle leadership locali di qualsiasi colore. Si è assistito ad un fiorire di piani strategici comunali, provinciali o regionali in cui l’elemento di contrapposizione, verso il comune o la provincia vicina, costituiva sistematicamente il fattore intorno al quale definire la strategia d’azione. La logica era abbastanza semplice: presentare l’opportunità di fare qualcosa per scongiurare il rischio che la facesse il vicino; poco importava se si trattava di costruire un aeroporto (per un po’ di tempo anche Padova voleva il suo aeroporto), di avere un’università (Treviso come può non avere un ateneo?) o di diventare provincia (Bassano del Grappa ha un export fortissimo). È del tutto passata quella stagione? Non del tutto, ma certamente una evoluzione c’è stata, favorita da almeno tre fattori.

Il primo, in ordine di rilevanza, è stato il taglio drastico delle risorse rese disponibili, a livello locale, da politiche redistributive: con meno denaro a disposizione l’attenzione si sposta, o dovrebbe spostarsi, sulla ’amministrazione’ e sulla ‘gestione’ più che sulla ‘definizione di strategie competitive localiste’.

Il secondo fattore trova la sua origine nelle esigenze del sistema produttivo. Per le aziende che devono esportare, gestire catene di approvvigionamento, o per i lavoratori che devono spostarsi sul territorio, poco importa se i servizi pubblici sono amministrati a questo o quel livello, l’importante è che funzionino bene ad un costo competitivo.

È in questo contesto e con questa consapevolezza che l’Unione Europea, negli ultimi anni, ha costruito una nuova narrazione del rapporto tra città, aree urbane e metropolitane e il loro territorio di riferimento. Questo è il terzo fattore di spinta: un nuovo concetto di ruolo funzionale e di integrazione delle città che diventano ‘motore’ di sviluppo regionale in cui agiscono contestualmente: specializzazione, eccellenza e integrazione funzionale del territorio. Dunque, non competizione tra città e territori di una regione, ma ’integrazione funzionale’ per riuscire a fornire servizi di valore per una competizione a scala globale.

Questi elementi, anche se solo brevemente accennati, portano inevitabilmente ad una considerazione: i processi di razionalizzazione di qualsiasi ente od organizzazione, se guidati da obiettivi di efficienza ed efficacia, devono prima di tutto rendere chiari quali sono le funzioni e i compiti da svolgere. In quest’ottica la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali va dunque considerata come una possibile strategia ma non a priori un obiettivo. E non basta nemmeno che l’obiettivo sia una dichiarata maggiore efficienza nella gestione.

Ciò che bisogna chiedersi è se i compiti e le funzioni sono gli stessi che in passato. C’è stata una ridefinizione delle funzioni cui sono chiamati gli enti locali? Quale è il rapporto tra funzioni da svolgere e attività di rappresentanza? Quali attività richiedono prossimità fisica e quali si dematerializzano e delocalizzano nel senso che divengono indifferenti alla localizzazione?

Il rischio di partire da un ridisegno della scala territoriale prima ancora di aver ridefinito ruolo e funzioni, è quanto mai reale. Basti ricordare che cosa successe nel 2012, quando il governo Monti tentò una riforma delle Province in cui l’elemento forte era proprio l’accorpamento delle circoscrizioni: Rovigo con Verona, Padova con Treviso ecc… Il disegno fu stoppato sul nascere e non se ne fece nulla. Ma non deve sfuggire il fatto che anche in quel caso si è partiti assumendo subito un obiettivo di incremento di scala a mezzo del ridisegno delle circoscrizioni prima ancora di porsi il problema se andavano o meno ridefiniti il tipo di rappresentanza e il tipo di funzioni che le province riformate dovevano svolgere.

Con la legge Delrio (legge 56/2014) il sistema di rappresentanza nel governo delle province è stato definito andando anche a comporre gli elementi che ne caratterizzeranno il ruolo funzionale. Le province riformate sono enti di secondo livello, i cui organi eletti, presidente e consiglio provinciale, trovano nei consiglieri comunali e nei sindaci della provincia l’elettorato attivo e passivo. La legge Delrio tuttavia non ridefinisce in alcun modo le circoscrizioni degli enti locali, comuni e province. E la ragione è abbastanza semplice: è doppiamente rischioso intervenire contestualmente sulle funzioni e sulle circoscrizioni territoriali senza aver prima valutato gli effetti che si producono intervenendo su uno solo dei due elementi. Ora, per quanto riguarda le province, la legge ha pensato bene di intervenire sulle funzioni, dunque mettendo da parte l’idea di ridefinire i confini. Ma anche nell’intervenire sulle funzioni la Delrio non ha proceduto con un disegno conformativo bensì ha posto le regioni nella condizione di decidere che tipo di funzioni far svolgere alle loro rispettive province, riconfermando le precedenti, piuttosto che avocandone alcune a sé o demandandone ai comuni.

La governance regionale innescata dalla Legge Delrio non segue pertanto modelli netti, poiché non vi è alcuna precisa richiesta di nettezza nel disegno normativo nazionale, mentre, al contrario, la definizione ispirata al «riordino» sembra mostrare indirizzi verso «ordini nuovi», che rispondono a processi locali. Solo che questi esiti, non solo sono molto difformi tra loro, e ciò era prevedibile poiché ispirati dalla legge stessa, ma sono anche particolarmente provvisori. Vi sono infatti regioni quali l’Emilia Romagna, nelle quali vi è stato un sostanziale superamento delle province attraverso up-scaling di funzioni alla regione e integrazione della governance sub-regionale in una configurazione di Aree Vaste amministrate da Unioni di comuni come meso-governo alternativo, complementare ai due poli (regionale e comunale). Ciò si è tradotto in una chiara scelta di governance multilivello a base regionale, con chiare concessioni ai comuni, riorganizzati pressoché in tutto il territorio regionali in unioni di comuni di ampie dimensioni[1]

Nel caso del Veneto invece la Delrio ha dato luogo a scelte di continuità mantenendo un solido ruolo del secondo livello provinciale con la Regione chee è restata ben lontana dall’intervenire sui livelli istituzionali intermedi. Non tutto è fermo tuttavia. Infatti, paradossalmente, la novità più rilevante nella governance regionale è emersa non nel riordino istituzionale ma in quello funzionale dei servizi sanitari, con la costituzione di Asl provinciali in 5 territori provinciali e la costituzione di quattro Asl sub provinciali nel vicentino e nel veneziano. Se questo assetto dovesse consolidarsi, allora la governance del livello intermedio restituirebbe un Veneto così articolato: una città metropolitana lagunare (da Chioggia a Venezia) con una sub area a larga autonomia (Venezia Orientale) e sette aree vaste (Vicenza, Bassano e le altre province).

E per quanto riguarda i comuni e dunque le circoscrizioni comunali? Per lungo tempo il dibattito è ruotato intorno alla necessità di applicare concretamente il principio di adeguatezza ponendo un limite al ‘municipalismo’ inteso come interpretazione in senso autonomista della sussidiarietà. I decreti succedutisi dal 2010 in poi hanno provato ad intervenire sull’individuazione di ambiti dimensionali ottimali per le funzioni fondamentali dei comuni. Nel dibattito le opzioni considerate sono state essenzialmente due: ridefinizione delle circoscrizioni comunali via accorpamento di comuni da un lato e associazionismo intercomunale per la gestione associata dall’altro.

La discussione, come è noto, non ha prodotto alcuna scelta forte. Certamente non è emerso un consenso per procedere ad un ridisegno ampio delle circoscrizioni comunali ed arrivare alla creazione di nuovi grandi comuni con l’accorpamento delle municipalità preesistenti alla stregua di quanto avvenuto nei decenni scorsi in Germania. La Germania Federale tra il 1968 e il 1978 aveva infatti ridotto le sue municipalità da oltre 24 mila a 8518.  In Italia l’idea di un accorpamento sistematico e su larga scala dei comuni non è evidentemente considerata politicamente sostenibile, per cui le fusioni vengono incentivate ma non rappresentano un obiettivo di riforma generale.

Dunque, nessuna revisione delle circoscrizioni comunali. Troppo complesso, per le ragioni poste in premessa, andare a ridisegnare i territori per via autoritativa dal livello nazionale. Meglio lasciare che le macchine amministrative si riorganizzino dal basso secondo le specificità territoriali regionali: è proprio questo che ha fatto la Delrio. Viene pertanto da chiedersi quali sono i processi di razionalizzazione che si stanno realizzando tramite la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali visto che, come sopra ricordato, gli enti locali non hanno modificato i loro confini. Ebbene una serie di processi di riorganizzazione territoriale sono in corso da tempo e alcuni sono stati richiamati anche nella stessa legge Delrio. Tra gli articoli finali della legge si trova questo passaggio: “il livello provinciale e delle città metropolitane non costituisce ambito territoriale obbligatorio o di necessaria corrispondenza per l’organizzazione periferica delle pubbliche amministrazioni […] conseguentemente le pubbliche amministrazioni riorganizzano la propria rete periferica individuando ambiti territoriali ottimali di esercizio”. Questo processo sta già avvenendo per le articolazioni periferiche dell’amministrazione centrale: Agenzia delle Entrate, INAIL, INPS, Prefetture.

Con una certa ironia, un passaggio successivo della stessa legge interviene precisando che: «Le disposizioni della presente legge non modificano l’assetto territoriale degli ordini, dei collegi professionali e dei relativi organismi nazionali previsto dalle rispettive leggi istitutive, nonché delle camere di commercio, industria, artigianato». Ancora una volta il legislatore si è guardato bene dal ridefinire esplicitamente i confini locali. Tuttavia, qualche mese dopo, con il decreto legge 90/2014, il Governo ha ridotto il diritto annuale dovuto alle camere di commercio a carico delle imprese. Il risultato è stato che le camere di commercio hanno presentato un piano di autoriforma con accorpamenti territoriali che procede tuttora. E anche in questo caso, abbiamo assistito ad una stagione di fervore iniziale “a la” Risiko, in cui la soluzione di tutti i mali sembra passare attraverso accorpamenti.

Da queste esperienze ci derivano almeno un paio di lezioni. La prima è che la revisione delle circoscrizioni territoriali degli enti locali è probabilmente, nel breve periodo, più un mito che una realtà. Comuni, province e regioni si terranno ragionevolmente i loro confini.

La seconda lezione, che riguarda i collegi, gli ordini professionali e le stesse camere di commercio, ci insegna che un processo di razionalizzazione deve partire rispondendo prima di tutto alla domanda: “che tipo di attività e funzioni ha senso che questi svolgano domani?”. Cercare di capire come ridefinire le circoscrizioni territoriali in modo tale che queste organizzazione possano continuare a fare ciò che facevano ieri, al contrario, rischia di essere uno sterile e reazionario esercizio contabile.


[1] Per una analisi comparata dei processi di rescaling regionale che seguono la Delrio si veda: Bolgherini S., Lippi A., Maset S. (2016), In mezzo al guado. La governance subregionale tra «vecchie» province e «nuove» aree vaste, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», n. 3.

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LA RETE IMMATERIALE TRA I PARTITI E LA BASE

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, il 2 febbraio 2019]

Il processo di smaterializzazione dell’informazione, delle comunicazioni, delle relazioni che, in una certa misura, divengono sempre più virtuali e meno fisiche, ha portato, tra le altre conseguenze, a una forte svalutazione – io direi proprio disconnessione – della funzione dei luoghi. Questo vale in particolare per la funzione politica, nel senso più ampio dell’agorà, ossia lo sviluppo del dibattito e del ragionamento intorno al bene comune.

In generale, le funzioni determinanti per la crescita di una persona e centrali per la società dovrebbero prevedere specifici luoghi deputati allo svolgimento della funzione. È così per la crescita individuale, sostenuta dalla famiglia; è così per l’istruzione seguita dalla scuola; è così, in qualche modo, anche per i riferimenti etico-valoriali con la chiesa; e così dovrebbe essere anche per la politica. Non si tratta di fare un’elegia della sede, né di farsi prendere da una sorta di critica immobiliarista. Il punto fondamentale è che il concetto di “appartenenza leggera”, proiettato sui luoghi, in realtà è l’altra faccia di una visione individualista del percorso politico, nel quale il singolo “leader” ricerca il contatto con la base nel momento elettorale, senza alcun percorso di costruzione di una leadership dialettica: questa richiede luoghi di elaborazione, entro i quali vi sia un senso e un convincimento di continuità, a prescindere dal singolo.

In qualche modo il luogo fisico afferma che l’organizzazione e il suo senso devono sopravvivere a prescindere da chi li stia guidando pro tempore. Gli attuali non luoghi della politica sono figli di una stagione fatta esclusivamente di leader, o aspiranti tali, che costruiscono il loro percorso immaginando già la transitorietà del loro ruolo a quel dato livello, e quindi disinvestono sul territorio, sbilanciandosi verso alleanze leggere con opportuni think tank esterni, questi sì strutturati e in sedi prestigiose. Le scuole di partito, come anche le scuole sindacali, nazionali e regionali invecchiano e si indeboliscono; i contenuti decisionali vengono esternalizzati; la scelta conseguente è un disinvestimento nella sede, il primo luogo di incontro con il territorio.

Rispetto a questo l’esperienza di Forza Italia è stata un’espressione anzitempo del concetto di disintermediazione tanto caro agli analisti politici oggi – mediato, o copiato, o tentato, negli ultimi anni da tanti, incluso lo stesso Renzi. Questo porta a una dicotomia comune nell’esperienza di chi ha frequentato sedi di partiti od organizzazioni: da un lato stanno le sedi – quando e dove ancora ci sono – simili a non-luoghi o stazioni degli autobus, piene di scatole polverose di materiali abbandonati, sporche e fredde; all’opposto gli eventi che si svolgono in sale congressi di alberghi, certo più confortevoli ma altrettanto non luoghi.

Ma accetteremmo un tale svuotamento di senso dei luoghi per le altre funzioni? Accetteremmo come normale una scuola dentro un cinema o in una palestra, o la giudicheremmo una situazione di transitoria difficoltà? Eppure, per quanto riguarda la funzione politica, evidentemente lo accettiamo di buon grado, dato che lo abbiamo accettato negli ultimi 30 anni. I non luoghi della politica sono la logica conseguenza del fatto di avere disintermediato il rapporto con la base. Il punto critico di questo processo è che non si può attivare la partecipazione esclusivamente attraverso strumenti disintermediati. La disintermediazione nella politica non è bidirezionale come tanti sembrano credere: funziona in una sola direzione.

I processi partecipativi non funzionano sulla rete: sulla rete possiamo contare i numeri, i follower, le visualizzazioni, ma non si può perdere di vista il fatto che le persone hanno bisogno di un contesto fisico che sia di stimolo alla loro diretta partecipazione e congruente con le loro capacità cognitive. Nel momento in cui io metto delle persone in una stanza a parlare sto dando loro la possibilità non solo di dire e sentire qualcosa, ma anche di avere riscontro alle loro osservazioni in modo trasversale. Questa possibilità si annacqua nella rete, troppo grande e caotica: si possono registrare le singole voci ma non costruire un percorso. E allora si ritorna a quel ragionamento iniziale: la rete in realtà funziona in maniera verticistica, solo i luoghi consentono una partecipazione trasversale.

Questo il problema di un Forza Italia che deve fare i conti con l’assenza di “uomini e luoghi di mezzo”. Questa sembra essere anche l’illusione originaria dell’approccio renziano. Forza Italia e il PD renziano sono l’espressione della teoria della disintermediazione, molto più del M5S che partiva e mantiene tuttora localmente, l’esperienza dei meetup anche se dovrà inevitabilmente fare i conti con la sua istituzionalizzazione. Diversa ancora è la situazione della Lega, che vive ora la tentazione di un leaderismo disintermediato ma che deve convincere alla prova del confronto con un solido radicamento nei luoghi.

Occorre dunque affiancare ad una rete molecolare immateriale una rete di luoghi, entro la quale si strutturano relazioni, interessi e specialità; il che non significa che le sedi devono diventare elemento di socialità, ma che il territorio ha un ruolo fondamentale; e quindi nel territorio c’è bisogno di una sede che sia dignitosa in maniera non fugace, non estemporanea. Una fulminante imitazione di Fausto Bertinotti fatta da Corrado Guzzanti qualche anno fa, poneva l’accento sull’irreperibilità, anche fisica, delle sedi di Rifondazione Comunista sul territorio, che non solo scompaiono ma divengono sempre più evanescenti: “trovaci compagno, se ci riesci”. In fin dei conti, tutti sappiamo che a fare la differenza in una famiglia sono gli affetti e i progetti comuni, ma non puoi crescere dei figli senza un tetto e un tavolo.

STIME ATTENDIBILI E DECISIONI SERIE SUL FUTURO DELLA PEDEMONTANA

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso il 20 novembre 2016]

Nel ricorrente dibattito sul closing finanziario della Superstrada Pedemontana è recentemente entrato di prepotenza il tema delle stime di traffico. A quanto pare dati aggiornati direbbero che il traffico non sarà quello a suo tempo stimato, bensì enormemente inferiore. Da questo scenario discenderebbero due emergenze. Primo, la Regione Veneto dovrà sborsare un sacco di soldi compromettendo così il suo bilancio per decenni; secondo, poiché gli uomini della cassaforte dello Stato – la Cassa Depositi e Prestiti – non si fiderebbero della sostenibilità dell’opera, tanto meno dovrebbero investirci i privati, dunque niente soldi per finire i lavori. Insomma, due conclusioni catastrofiche per l’amministrazione delle risorse pubbliche.

Prima di ragionare su questi due rischi è meglio però provare fare un attimo di chiarezza. Punto primo: le stime sono una cosa, le decisioni sono un’altra. L’opera è partita per cui a questo punto se un problema c’è non è più nelle stime (di allora) ma nella decisione a suo tempo avvallata, rettificata, autorizzata a qualsiasi livello e tavolo. Quindi se errore ci fosse mai stato a suo tempo, la responsabilità risale la china della sequenza delle autorità amministrative. Della serie, non può essere accettato uno scaricabarile stato-regione.

Secondo punto: si negoziano le decisioni, non le stime. È solo in un mondo ottusamente tecnocratico ed elitario che si negoziano le stime per giustificare le scelte politiche. Le stime si valutano, si confrontano e si argomentano: le decisioni si negoziano. Della serie, se intendi negoziare sulle stime, allora non nominarle nemmeno e assumiti le responsabilità.

Terzo punto. Non c’è bisogno di essere dei volponi navigati per capire che quando ci sono in gioco cifre di miliardi di euro è irrilevante l’autorevolezza di chi fornisce le stime. Ovvero: buonsenso e mestiere ci insegnano che non posso mai basarmi su una sola fonte, ma dovrò metterla a confronto con altre. Ora, dopo sei mesi in cui si parla di stime, delle due l’una: o la questione dei dati è un pretesto oppure dobbiamo accettare che il nostro paese sia rimasto ai tempi dell’allegra commissione raccontata da Paolini, che da Roma saliva al Vajont per certificarne i lavori.

Come se ne viene fuori? Tre proposte. Primo, per quanto riguarda la questione delle stime, se mai davvero il problema fosse lì, meglio affrontarlo con la dovuta chiarezza: quattro docenti di pianificazione dei trasporti (non progettisti di strade, grazie), magari due italiani e due stranieri e un mese di tempo. Tanto di più non serve. Secondo, provare a fare un esercizio anche giornalistico: anziché concentrarsi esclusivamente sui rischi e su chi li corre, provare anche a chiedersi se e quali sarebbero le opportunità (e per chi) derivanti da una ridefinizione della partita attuale della compagine finanziaria della Pedemontana. Ultimo, ma non ultimo: facciamo, come paese, un bilancio serio sull’esperienza delle concessioni autostradali e delle privatizzazioni.