LA RAZIONALIZZAZIONE CIRCOSCRIZIONALE DEGLI ENTI TERRITORIALI LOCALI IN EUROPA E IN ITALIA

 [di Sergio Maset Giugno 2017

in CIRCOSCRIZIONI TERRITORIALI. Riflessioni a settant’anni dal progetto di Adriano Olivetti(a cura di) Alessandro Bove e Angelo Pasotto) CLEUP, Padova, 2017]

Chiunque si occupi di politica anche solo per passione o interesse culturale avrà osservato come spesso il territorio costituisce un facile elemento su cui provare a costruire un’azione politica. Nel corso degli anni ’90 e ancora più nei primi anni 2000, quello di “territorio” è stato un concetto frequentemente utilizzato dalle leadership locali di qualsiasi colore. Si è assistito ad un fiorire di piani strategici comunali, provinciali o regionali in cui l’elemento di contrapposizione, verso il comune o la provincia vicina, costituiva sistematicamente il fattore intorno al quale definire la strategia d’azione. La logica era abbastanza semplice: presentare l’opportunità di fare qualcosa per scongiurare il rischio che la facesse il vicino; poco importava se si trattava di costruire un aeroporto (per un po’ di tempo anche Padova voleva il suo aeroporto), di avere un’università (Treviso come può non avere un ateneo?) o di diventare provincia (Bassano del Grappa ha un export fortissimo). È del tutto passata quella stagione? Non del tutto, ma certamente una evoluzione c’è stata, favorita da almeno tre fattori.

Il primo, in ordine di rilevanza, è stato il taglio drastico delle risorse rese disponibili, a livello locale, da politiche redistributive: con meno denaro a disposizione l’attenzione si sposta, o dovrebbe spostarsi, sulla ’amministrazione’ e sulla ‘gestione’ più che sulla ‘definizione di strategie competitive localiste’.

Il secondo fattore trova la sua origine nelle esigenze del sistema produttivo. Per le aziende che devono esportare, gestire catene di approvvigionamento, o per i lavoratori che devono spostarsi sul territorio, poco importa se i servizi pubblici sono amministrati a questo o quel livello, l’importante è che funzionino bene ad un costo competitivo.

È in questo contesto e con questa consapevolezza che l’Unione Europea, negli ultimi anni, ha costruito una nuova narrazione del rapporto tra città, aree urbane e metropolitane e il loro territorio di riferimento. Questo è il terzo fattore di spinta: un nuovo concetto di ruolo funzionale e di integrazione delle città che diventano ‘motore’ di sviluppo regionale in cui agiscono contestualmente: specializzazione, eccellenza e integrazione funzionale del territorio. Dunque, non competizione tra città e territori di una regione, ma ’integrazione funzionale’ per riuscire a fornire servizi di valore per una competizione a scala globale.

Questi elementi, anche se solo brevemente accennati, portano inevitabilmente ad una considerazione: i processi di razionalizzazione di qualsiasi ente od organizzazione, se guidati da obiettivi di efficienza ed efficacia, devono prima di tutto rendere chiari quali sono le funzioni e i compiti da svolgere. In quest’ottica la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali va dunque considerata come una possibile strategia ma non a priori un obiettivo. E non basta nemmeno che l’obiettivo sia una dichiarata maggiore efficienza nella gestione.

Ciò che bisogna chiedersi è se i compiti e le funzioni sono gli stessi che in passato. C’è stata una ridefinizione delle funzioni cui sono chiamati gli enti locali? Quale è il rapporto tra funzioni da svolgere e attività di rappresentanza? Quali attività richiedono prossimità fisica e quali si dematerializzano e delocalizzano nel senso che divengono indifferenti alla localizzazione?

Il rischio di partire da un ridisegno della scala territoriale prima ancora di aver ridefinito ruolo e funzioni, è quanto mai reale. Basti ricordare che cosa successe nel 2012, quando il governo Monti tentò una riforma delle Province in cui l’elemento forte era proprio l’accorpamento delle circoscrizioni: Rovigo con Verona, Padova con Treviso ecc… Il disegno fu stoppato sul nascere e non se ne fece nulla. Ma non deve sfuggire il fatto che anche in quel caso si è partiti assumendo subito un obiettivo di incremento di scala a mezzo del ridisegno delle circoscrizioni prima ancora di porsi il problema se andavano o meno ridefiniti il tipo di rappresentanza e il tipo di funzioni che le province riformate dovevano svolgere.

Con la legge Delrio (legge 56/2014) il sistema di rappresentanza nel governo delle province è stato definito andando anche a comporre gli elementi che ne caratterizzeranno il ruolo funzionale. Le province riformate sono enti di secondo livello, i cui organi eletti, presidente e consiglio provinciale, trovano nei consiglieri comunali e nei sindaci della provincia l’elettorato attivo e passivo. La legge Delrio tuttavia non ridefinisce in alcun modo le circoscrizioni degli enti locali, comuni e province. E la ragione è abbastanza semplice: è doppiamente rischioso intervenire contestualmente sulle funzioni e sulle circoscrizioni territoriali senza aver prima valutato gli effetti che si producono intervenendo su uno solo dei due elementi. Ora, per quanto riguarda le province, la legge ha pensato bene di intervenire sulle funzioni, dunque mettendo da parte l’idea di ridefinire i confini. Ma anche nell’intervenire sulle funzioni la Delrio non ha proceduto con un disegno conformativo bensì ha posto le regioni nella condizione di decidere che tipo di funzioni far svolgere alle loro rispettive province, riconfermando le precedenti, piuttosto che avocandone alcune a sé o demandandone ai comuni.

La governance regionale innescata dalla Legge Delrio non segue pertanto modelli netti, poiché non vi è alcuna precisa richiesta di nettezza nel disegno normativo nazionale, mentre, al contrario, la definizione ispirata al «riordino» sembra mostrare indirizzi verso «ordini nuovi», che rispondono a processi locali. Solo che questi esiti, non solo sono molto difformi tra loro, e ciò era prevedibile poiché ispirati dalla legge stessa, ma sono anche particolarmente provvisori. Vi sono infatti regioni quali l’Emilia Romagna, nelle quali vi è stato un sostanziale superamento delle province attraverso up-scaling di funzioni alla regione e integrazione della governance sub-regionale in una configurazione di Aree Vaste amministrate da Unioni di comuni come meso-governo alternativo, complementare ai due poli (regionale e comunale). Ciò si è tradotto in una chiara scelta di governance multilivello a base regionale, con chiare concessioni ai comuni, riorganizzati pressoché in tutto il territorio regionali in unioni di comuni di ampie dimensioni[1]

Nel caso del Veneto invece la Delrio ha dato luogo a scelte di continuità mantenendo un solido ruolo del secondo livello provinciale con la Regione chee è restata ben lontana dall’intervenire sui livelli istituzionali intermedi. Non tutto è fermo tuttavia. Infatti, paradossalmente, la novità più rilevante nella governance regionale è emersa non nel riordino istituzionale ma in quello funzionale dei servizi sanitari, con la costituzione di Asl provinciali in 5 territori provinciali e la costituzione di quattro Asl sub provinciali nel vicentino e nel veneziano. Se questo assetto dovesse consolidarsi, allora la governance del livello intermedio restituirebbe un Veneto così articolato: una città metropolitana lagunare (da Chioggia a Venezia) con una sub area a larga autonomia (Venezia Orientale) e sette aree vaste (Vicenza, Bassano e le altre province).

E per quanto riguarda i comuni e dunque le circoscrizioni comunali? Per lungo tempo il dibattito è ruotato intorno alla necessità di applicare concretamente il principio di adeguatezza ponendo un limite al ‘municipalismo’ inteso come interpretazione in senso autonomista della sussidiarietà. I decreti succedutisi dal 2010 in poi hanno provato ad intervenire sull’individuazione di ambiti dimensionali ottimali per le funzioni fondamentali dei comuni. Nel dibattito le opzioni considerate sono state essenzialmente due: ridefinizione delle circoscrizioni comunali via accorpamento di comuni da un lato e associazionismo intercomunale per la gestione associata dall’altro.

La discussione, come è noto, non ha prodotto alcuna scelta forte. Certamente non è emerso un consenso per procedere ad un ridisegno ampio delle circoscrizioni comunali ed arrivare alla creazione di nuovi grandi comuni con l’accorpamento delle municipalità preesistenti alla stregua di quanto avvenuto nei decenni scorsi in Germania. La Germania Federale tra il 1968 e il 1978 aveva infatti ridotto le sue municipalità da oltre 24 mila a 8518.  In Italia l’idea di un accorpamento sistematico e su larga scala dei comuni non è evidentemente considerata politicamente sostenibile, per cui le fusioni vengono incentivate ma non rappresentano un obiettivo di riforma generale.

Dunque, nessuna revisione delle circoscrizioni comunali. Troppo complesso, per le ragioni poste in premessa, andare a ridisegnare i territori per via autoritativa dal livello nazionale. Meglio lasciare che le macchine amministrative si riorganizzino dal basso secondo le specificità territoriali regionali: è proprio questo che ha fatto la Delrio. Viene pertanto da chiedersi quali sono i processi di razionalizzazione che si stanno realizzando tramite la ridefinizione delle circoscrizioni territoriali visto che, come sopra ricordato, gli enti locali non hanno modificato i loro confini. Ebbene una serie di processi di riorganizzazione territoriale sono in corso da tempo e alcuni sono stati richiamati anche nella stessa legge Delrio. Tra gli articoli finali della legge si trova questo passaggio: “il livello provinciale e delle città metropolitane non costituisce ambito territoriale obbligatorio o di necessaria corrispondenza per l’organizzazione periferica delle pubbliche amministrazioni […] conseguentemente le pubbliche amministrazioni riorganizzano la propria rete periferica individuando ambiti territoriali ottimali di esercizio”. Questo processo sta già avvenendo per le articolazioni periferiche dell’amministrazione centrale: Agenzia delle Entrate, INAIL, INPS, Prefetture.

Con una certa ironia, un passaggio successivo della stessa legge interviene precisando che: «Le disposizioni della presente legge non modificano l’assetto territoriale degli ordini, dei collegi professionali e dei relativi organismi nazionali previsto dalle rispettive leggi istitutive, nonché delle camere di commercio, industria, artigianato». Ancora una volta il legislatore si è guardato bene dal ridefinire esplicitamente i confini locali. Tuttavia, qualche mese dopo, con il decreto legge 90/2014, il Governo ha ridotto il diritto annuale dovuto alle camere di commercio a carico delle imprese. Il risultato è stato che le camere di commercio hanno presentato un piano di autoriforma con accorpamenti territoriali che procede tuttora. E anche in questo caso, abbiamo assistito ad una stagione di fervore iniziale “a la” Risiko, in cui la soluzione di tutti i mali sembra passare attraverso accorpamenti.

Da queste esperienze ci derivano almeno un paio di lezioni. La prima è che la revisione delle circoscrizioni territoriali degli enti locali è probabilmente, nel breve periodo, più un mito che una realtà. Comuni, province e regioni si terranno ragionevolmente i loro confini.

La seconda lezione, che riguarda i collegi, gli ordini professionali e le stesse camere di commercio, ci insegna che un processo di razionalizzazione deve partire rispondendo prima di tutto alla domanda: “che tipo di attività e funzioni ha senso che questi svolgano domani?”. Cercare di capire come ridefinire le circoscrizioni territoriali in modo tale che queste organizzazione possano continuare a fare ciò che facevano ieri, al contrario, rischia di essere uno sterile e reazionario esercizio contabile.


[1] Per una analisi comparata dei processi di rescaling regionale che seguono la Delrio si veda: Bolgherini S., Lippi A., Maset S. (2016), In mezzo al guado. La governance subregionale tra «vecchie» province e «nuove» aree vaste, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», n. 3.

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