DECENTRAMENTO? C’È TANTO DA FARE

[di Sergio Maset

Pubblicato nella rivista Fare Impresa – ottobre novembre 2017]

E’ sempre buona regola in particolare quando il tema è complesso, incominciare un ragionamento mettendo ordine tra i termini e così faccio ora richiamando intanto la distinzione tra potestà legislativa e titolarità amministrativa. Semplificando sino al limite di banalizzare possiamo dire che la prima si riferisce a dove vengono prese le decisioni che portano a formulare le leggi, e in relazione a che tema. La seconda, la titolarità amministrativa, si riferisce al livello territoriale cui spetta la competenza di governare quali aspetti della pubblica amministrazione.

Partiamo da quest’ultimo punto: l’amministrazione e il governo. La spesa pubblica è composta per i 20% dal costo del lavoro del pubblico impiego, per il 33% dalle pensioni; il restante 47% è distribuito tra acquisto di beni e servizi – in questo ambito gran parte è rappresentato dal servizio sanitario – investimenti e infine dal pagamento di interessi sul debito. Di conseguenza entrare nel merito dell’amministrazione della spesa pubblica, della sua ripartizione e quindi anche del suo governo, significa inevitabilmente entrare nel merito della contrattazione.

Da questo punto di vista è rilevante l’emergere nel dibattito regionale di una crescente attenzione alla contrattazione decentrata; tuttavia non si può affrontare seriamente questo tema senza porre sul piatto tanto la contrattazione del privato quanto quella del pubblico. Bisogna essere consapevoli che nell’ambito della pubblica amministrazione la situazione attuale è quanto di più lontano vi possa essere da una contrattazione regionale; se infatti prendiamo in esame la relazione tra Pil pro capite e retribuzione media, nel comparto privato emerge una perfetta correlazione; più è basso il Pil pro capite, più sono basse le retribuzioni e viceversa. Al contrario, nel comparto pubblico le retribuzioni sono omogenee su tutto il territorio nazionale.

Questo fatto dovrebbe stimolare una riflessione sulla possibilità che si creino, proprio in ragione di forzata omogeneità, elementi di sperequazione, anche all’interno dello stesso comparto pubblico. Pertanto: 1. intervenire seriamente sull’amministrazione, e quindi sulle deleghe amministrative, richiede di intervenire anche sulla contrattazione del lavoro; 2. è opportuno interrogarsi se e in che misura abbia ancora senso la totale omogeneità contrattuale nel pubblico a livello nazionale, senza tenere conto dei differenziali regionali in termini di costo della vita, di retribuzioni medie nel comparto privato e di altri fattori di disparità.

Un secondo tema che vorrei richiamare riguarda invece il rapporto tra sussidiarietà e la capacità di risposta effettiva alle esigenze di un territorio. La domanda è: una maggiore sussidiarietà, ovvero uno spostamento del baricentro decisionale più vicino al territorio, garantisce di per sé una maggiore efficacia? La risposta è: non c’è nessun automatismo. Basti pensare ad esempio alle competenze dei Comuni in materia urbanistica, e al ruolo di regolatore che le regioni hanno a tutti gli effetti in materia, a fronte delle domande di riduzione della burocrazia. Questa “sussidiarietà” non ha portato automaticamente a significativi passi avanti verso la semplificazione dei regolamenti comunali, né in direzione di una loro armonizzazione: ogni Comune è una libera repubblica con la sua conseguente burocrazia. Lo stesso vale per tutte le altre materie. Prendiamo l’istruzione: in questo momento sentiamo spesso richiamare il tema dello scollamento tra i fondamentali capisaldi famiglie-imprese-istituzioni scolastiche. Le famiglie orientano i figli nel tentativo di perseguire un miglioramento della loro condizione sociale; le imprese lamentano il disallineamento tra le competenze richieste e quelle disponibili; le scuole – come pure le università – sembrano talvolta animate più da una competizione sull’acquisizione dello studente che non dalla effettiva applicabilità della loro offerta formativa. Ora, il fine dell’azione di governo deve essere migliorare l’incontro tra queste esigenze. La domanda è: in che misura e in che modo una maggiore sussidiarietà, una maggiore vicinanza della potestà amministrativa al livello locale, aumenta la capacità di risposta a queste domande?

Infine, per tratteggiare il terzo punto, quello relativo all’associazionismo comunale, osserviamo alcuni chiaroscuri nell’esperienza diretta di innovazione nell’organizzazione dei Comuni. In provincia di Vicenza, nei 70 Comuni al di sotto di 5000 abitanti, il 42% della spesa corrente comunale è catturato dalle funzioni generali di amministrazione e gestione: dalla ragioneria ai tributi, dall’anagrafe all’ufficio tecnico; in sostanza, per il funzionamento stesso della macchina amministrativa. La percentuale, nei Comuni oltre i 10.000 abitanti, scende al 30%; al 19% nei 5 Comuni oltre i 25.000 abitanti. Nelle 46 amministrazioni sotto i 3000 abitanti la spesa per le funzioni generali è di circa 330 € all’anno per abitante; nei Comuni oltre i 25.000 scende a circa 150 € per abitante: meno della metà. Questo mette a disposizione maggiori importi da spendere negli ambiti dei settori sociali, del territorio, e per la sicurezza. Come è possibile ridurre l’incidenza delle spese “fisse” di gestione? Una possibile soluzione è rappresentata dalla gestione in forma associate delle funzioni generali mediante le Unioni dei Comuni. Queste tuttavia, nei pochi casi in cui sono state realizzate, sono rimaste ben lontane dal gestire in forma associata le funzioni generali, proprio quelle per le quali i dati suggeriscono rilevanti economie di scala. In una provincia dove quasi il 60% dei comuni ha meno di 5000 abitanti, è possibile liberare risorse da poter reinvestire sempre a livello comunale, a condizione, anche con l’ausilio delle province, di gestire le funzioni generali mediante unioni di comuni, di adeguata dimensione, alla scala, ad esempio, dei vecchi distretti sanitari. Le stime di una apposita simulazione infatti indicano che, organizzando le funzioni generali non per singolo comune ma in forma associata per più comuni si potrebbero liberare risorse da rimettere in gioco per il territorio intervenendo nel miglioramento dei servizi stessi. Una simulazione prudenziale restituisce un potenziale di risparmio di oltre 31 milioni anno nella sola provincia di Vicenza.

Il ragionamento sviluppato fin qui evidenzia dunque come le variazioni negli equilibri amministrativi possono essere volani di sviluppo e innovazione solo nella misura in cui sono accompagnate da un cambiamento nel rapporto tra amministrazione e rappresentanza. La definizione degli ambiti di maggiori competenze dovrà essere un passaggio collettivo, un percorso che definisca più ampiamente il rapporto di competenze tra le regioni e lo stato. Questo percorso non potrà essere realizzato restando circoscritto nell’ambito del confronto politico-amministrativo. Deve esserci infatti un obiettivo di miglioramento della vita dei cittadini e delle imprese e questo è perseguibile a condizione che vi siano organizzazioni di rappresentanza efficaci e consapevoli del loro ruolo propositore nei confronti dell’attività amministrativa e legislativa.