COLTIVARE LA PARTECIPAZIONE POLITICA LOCALE

[in TESSENDO IL FUTURO. Nuove relazioni per la città di Vittorio Veneto

a cura di Sergio Maset, PostEditori, Padova, 2018]

Le pagine che seguono traggono lo spunto da uno studio sulle caratteristiche socio-economiche della città di Vittorio Veneto, commissionato dall’amministrazione comunale della città. Lo studio ha fatto emergere una sorta di distonia tra il presente produttivo, caratterizzato da numerose realtà industriali attive e dinamiche e la narrazione che la città rende di sé, talvolta più orientata alla rievocazione nostalgica che al presente. Tuttavia, anche la comprensione del presente non basta per volgersi al futuro. Per ragionare di futuro bisogna condividere interrogativi e confrontarsi su prospettive, interessi e desideri. A costo di suonare retorico, è sempre la politica a dover tessere il futuro. Avere la possibilità di una committenza che stimola e pone domande di prospettiva è una fortuna non comune di questi tempi. Un riconoscimento va dunque alla volontà dell’amministrazione di Vittorio Veneto per aver portato avanti questo lavoro, agli uffici comunali che hanno collaborato alla sua realizzazione e a quanti con le loro riflessioni hanno arricchito i contenuti e le prospettive del volume.

Alla base del dialogo vi è il lavoro di analisi socioeconomica della città e del suo territorio, le cui principali risultanze sono riportate nel Capitolo 1. Tale analisi restituisce per Vittorio Veneto un quadro robusto nel quale delineare un percorso di crescita. L’aggettivo “robusto” viene qui utilizzato in una duplice accezione: innanzitutto robusto significa basato su dati, evidenze empiriche, tendenze reali; e questi dati – ecco qui la seconda accezione di robustezza – restituiscono un territorio caratterizzato da tutta una serie di asset strategici che possono essere fatti agire per sostenere la crescita.

In che senso, e per quale obiettivo, si ragiona di utilizzo degli asset strategici? Su questa domanda si innesta la riflessione politica in senso stretto: quali siano le condizioni per una crescita della città. Ovvero, quali siano le modalità e le logiche secondo cui una città definisce le condizioni della sua sopravvivenza e della sua crescita, in quanto organizzazione finalizzata al miglioramento della vita dei cittadini. Per ogni città, infatti, la crescita si sostanzia nel creare ai propri cittadini le condizioni per la loro sostenibilità nel tempo. Questo approccio richiede evidentemente una prospettiva temporale di medio periodo: ciò vale a dire, non solo porsi l’obiettivo di risolvere i problemi contingenti ma creare oggi le condizioni perché nel domani vi sia sostenibilità. La sostenibilità non significa invarianza: al contrario, significa evoluzione guidata dalla volontà di continuare ad “essere città”. Proviamo dunque a capire cosa intendere per crescita.

Crescere, per una città, significa prima di tutto crescere sul versante demografico. La crescita demografica è l’espressione della capacità di trasmettere prospettiva, desiderabilità, valore. Esiste, da questo punto di vista, un elemento significativo che caratterizza la città e che è ciò che determina la distinzione tra luoghi e non luoghi: la caratteristica dei luoghi, principalmente, è la non fugacità. Io divento cittadino di un luogo nel momento in cui lo vivo non transitoriamente. Essere città non è nemmeno un fatto quantitativo. Da questo punto di vista la consistenza numerica non è la caratteristica che distingue la città come luogo rispetto ai non luoghi. L’aeroporto di Venezia vede passare milioni di passeggeri ogni anno, ma non è certo una città. In questo senso la componente demografica, la cittadinanza, rileva per i luoghi in maniera completamente diversa dai transitanti – persone che fruiscono del luogo solo per un passaggio – come anche dagli utilizzatori – persone che fruiscono del luogo per lo svolgimento di una specifica funzione -, che possono essere in numero anche enormemente maggiore ma non sostanziano per sé una comunione di interessi.

Quindi la crescita significa prima di tutto crescere da un punto di vista demografico, e in particolare nelle componenti in età fertile, ovverosia le giovani famiglie. Quando un cittadino sceglie di risiedere, pur avendo ovviamente la possibilità di cambiare, compie la scelta riconoscendo una prospettiva di non transitorietà ovvero di potenziale stabilità nel tempo. L’orientamento alla sostenibilità di una città come Vittorio Veneto si misura dunque nella capacità di attrarre la componente giovane della popolazione: in questo senso, la capacità di una comunità e della sua amministrazione di fornire elementi atti a favorire il processo di autonomizzazione dai nuclei familiari di origine diviene anche, di riflesso, capacità di attrarre giovani famiglie, di incrementare la natalità, di ri-densificare la residenzialità nel centro urbano. Il tema dell’autonomia dei giovani si conferma strettamente e prioritariamente collegato alla costruzione del proprio percorso professionale lavorativo. Un primo passo necessario per l’autonomia consiste, quindi, in un’offerta lavorativa “di qualità” (ovvero, con caratteristiche di stabilità, valorizzazione del contributo individuale, possibilità di crescita) tale da stimolare la popolazione giovane a sviluppare nell’area vittoriese il proprio percorso di vita. E per questo, oltre alla presenza di un sistema di istruzione e formazione efficiente, occorre anche capacità di tessere relazioni, di ri-vivificare un tessuto di associazionismo, partecipazione che per i giovani diviene spazio di crescita e insieme arena di opportunità professionali.

Il definirsi cittadino di un luogo ha un significato che si intreccia strettamente con la dimensione territoriale nell’elaborazione politica. Quest’ultima tende generalmente ad articolarsi per ambiti tematici (industria, formazione, sanità ecc.) ed a svilupparsi verticalmente, spostando essenzialmente il livello del dibattito alla scala nazionale se non europea, secondo una logica per cui si discute dove si prendono le decisioni e dove vi sono le risorse economiche per alimentare le necessarie competenze. Tuttavia il prevalere della logica di pertinenza e competenza apre un dilemma: sulla base di quale principio si possono creare e garantire le risorse all’attività di elaborazione politica locale? Che questa abbia un suo senso pare evidente, perché se non qui e ora, allora quando e dove devono essere elaborate le scelte che riguardano il cittadino di Vittorio Veneto? Non si tratta evidentemente di un rigurgito neo-municipalista quanto di avere consapevolezza che la partecipazione politica richiede di mantenere animata la sua componente locale. Muoversi esclusivamente secondo il principio di pertinenza amplifica infatti a dismisura la distanza tra lo spazio della vita e quello dell’elaborazione e porta a circoscrivere la pratica di elaborazione politica entro circuiti limitati, indebolendo progressivamente la capacità di un territorio di generare innovazione di pensiero e agire un’efficace azione di rappresentanza.

Ne discende che il dilemma con cui dobbiamo fare i conti sta nella possibilità di trovare un equilibrio tra l’applicazione di princìpi di competenza e di pertinenza (che tendono a seguire logiche verticali), e la necessità di agire luoghi e momenti di elaborazione politica locale evitando di creare delle burocrazie aggiuntive. E tutto ciò riporta al tema di questo lavoro. Nel dialogo sulla città si affrontano i temi del rapporto tra industria e formazione, delle soluzioni per un invecchiamento attivo della popolazione, di istruzione, di infrastrutture: tutti temi che hanno una competenza finanche europea. Qui la domanda è: possiamo, per questo, permetterci che di questi temi se ne discuta solo a Bruxelles, o solo a Roma, o solo a Venezia? Certamente no: il tessuto locale per poter esprimere un’efficace rappresentanza deve riuscire a declinare in una prospettiva generale gli interessi specifici che emergono nel suo proprio ambito: che si tratti di elettrificazione della linea ferroviaria, di collegamento tra autostrada e zona industriale o di finanziamento agli istituti superiori.

Proviamo dunque a delineare i temi per una possibile agenda. Se la crescita significa innanzitutto crescita demografica nelle componenti in età fertile, ovvero giovani e famiglie, è necessario provare a interrogarsi su quali sono i fattori che rendono una città attraente. Le città hanno sempre una funzionalità frammentata, inclusiva, necessariamente conciliativa, democratica e plurale. Non può esserci un’àncora prevalente ed esclusiva che trattiene i cittadini e ne spiega la crescita. Le città con ancore funzionali prevalenti, finiscono per essere esse stesse per lungo tempo non luoghi, inserite in altre soggettività urbane: ne sono esempio Sesto San Giovanni rispetto a Milano e alla Breda, Marghera rispetto a Venezia e al Petrolchimico e, per certi versi, anche Pordenone rispetto all’Electrolux. Ma non è certamente il caso di Vittorio Veneto. Com’è allora la città che attrae? Anche se ognuno di noi può essere attratto per varie ragioni, le analisi di geografia economica e di sociologia del territorio ci dicono due cose. In prima istanza, sarà la prospettiva di occupazione a guidare l’individuazione di un’area potenziale in cui risiedere: ma sarà poi la valutazione dell’attrattività sociale di un determinato luogo a determinare la scelta di effettiva localizzazione. In altri termini: posso decidere di vivere in una certa zona del Veneto, e in un certo ambito della provincia, ma poi il fatto di scegliere un Comune piuttosto che un altro dipende dall’offerta effettiva, immobiliare, di servizi, di qualità del vivere. [1]

Va detto, e questo è un dato recentissimo, che a fronte di una tendenza che dagli anni Settanta ai primi anni Duemila ha visto una forte propensione a uscire dalle grandi città, ora la città torna ad attrarre. La crisi delle grandi città ha raggiunto il suo apice negli anni Novanta, per poi arrestarsi. In Italia la prima città a vedere l’inversione è Milano, ma si tratta di una dinamica che sta iniziando a interessare tutte le grandi città del Nord Italia. Cosa c’è dietro questa tendenza? In controluce si intravvedono varie componenti: una nuova declinazione del moto futurista verso la modernità, reinterpretato però intorno ai concetti di sostenibilità, di attenzione per il benessere fisico e culturale. Cosa sta succedendo? Succede che la città ha smesso di essere luogo grigio e anzi, diventa il laboratorio di un migliore equilibrio, di un uso più efficiente delle risorse, di una maggiore attenzione alla propria salute, alla cura del corpo, alla ricerca del bello e dell’arte. La città non è più emblema del grigio. Al contrario, è emblema del green, e della sostenibilità. È il cantiere in cui si elaborano forme di conciliazione tra ambiente, esigenze delle persone ed economia. Ed è interessante vedere che la fuga dalle città si è arrestata. Forse questi sono i primi segni dell’emergere di un nuovo ceto medio, i cui esiti si vedranno forse di qui a dieci anni. Una nuova classe che inizia a sostanziarsi ricercando intanto la residenza nella città, su una nuova base, forse più democratica, certamente più accessibile.

È indubbio che la fuga dalle città è stata in passato anche una fuga per la ricerca di una migliore qualità della vita. Vivere bene nelle città degli anni Ottanta richiedeva di essere benestanti. A parità di risorse nominali, il progressivo indebolimento economico del ceto medio ha spinto le giovani coppie a spostarsi nelle periferie e da qui nelle prime, seconde e finanche terze cinture delle città. Adesso sembrano gettarsi i semi per una nuova fase rigenerativa delle città. Si tratta di prendere atto della fine del processo di gentrification dei centri, cioè quello per cui le aree centrali delle città hanno assunto un mono profilo funzionale – solo servizi finanziari, banche, assicurazioni e boutique – e sociale, solo famiglie ad alto reddito, escludendo il ceto medio e certamente le giovani famiglie. Emergono ora nella città spazi per forme e luoghi di consumo e produzione nuovi, e per ripensare ad una residenzialità più accessibile.

Anche Vittorio Veneto potrebbe trarre vantaggio da questa prospettiva: pur non rientrando nell’ambito delle grandi città, ha avuto una dinamica molto simile ad esse: ha vissuto storicamente grandi industre al suo interno; le sue fasi di de-urbanizzazione hanno seguito i tempi delle grandi città. E come altre condivide un presente industriale molto più moderno, avanzato e internazionalizzato di quanto si tende a raccontare. Da qui dunque la sfida di raccogliere e sviluppare il senso contemporaneo dell’essere città: un luogo di restituzione, di incontro e di elaborazione.

La struttura del volume è espressione di un lavoro a più mani. Si parte dall’esposizione dell’analisi economica e sociale; segue una riflessione, curata da Giovanni Napol sulla relazione tra le componenti produttive della città e sull’interazione di questo presente industriale con il terziario professionale e di alto profilo tecnico. Segue la testimonianza di Chiara Mazzer, che vive la realtà vittoriese da imprenditrice, volta a ridare linfa alla relazione tra città e siti produttivi, non in quanto semplicemente coesistenti su uno stesso territorio, ma in quanto portatori di istanze e suggestioni per le quali è vitale trovare una conciliazione. Un altro grande tema di riflessione, sviluppato con il contributo dei presidi di tre istituti scolastici superiori, è quello del rapporto con l’istruzione e la formazione tecnica e scientifica. La questione è vista come rapporto tra tre sfere: la scuola, le famiglie (e questo significa i cittadini, che diventano anche stakeholder rispetto al sistema industriale e produttivo), e il mondo imprenditoriale. Un tema complesso, talvolta banalizzato nella retorica attuale. Il mantenimento di una adeguata vita della città e nella città, mentre l’invecchiamento della popolazione pone sotto i riflettori la necessità di ripensare ai servizi socio-sanitari, è al centro della riflessione proposta da Maurizio Castro. Il compito di leggere tra le righe degli approfondimenti e del dibattito gli stimoli concreti con cui sviluppare un’agenda programmatica della città di Vittorio Veneto è affidato nel capitolo finale a Roberto Tonon.


[1] Feltrin P., Maset S. (2012), Le onde lunghe dello sviluppo territoriale del Nord, in Perulli P. (a cura di), Nord. Una città-regione globale, Il Mulino, Bologna.

Feltrin P., Maset S., M.Zanta, (2014), La sfida della modernità negli ambienti alpini, Il Poligrafo, Padova.

Maset S., (2015) Le densità inattese. Piattaforme produttive implicite nella provincia di Treviso, Quaderni dell’Osservatorio, Osservatorio Economico e Sociale di Treviso, Treviso

LA RETE IMMATERIALE TRA I PARTITI E LA BASE

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, il 2 febbraio 2019]

Il processo di smaterializzazione dell’informazione, delle comunicazioni, delle relazioni che, in una certa misura, divengono sempre più virtuali e meno fisiche, ha portato, tra le altre conseguenze, a una forte svalutazione – io direi proprio disconnessione – della funzione dei luoghi. Questo vale in particolare per la funzione politica, nel senso più ampio dell’agorà, ossia lo sviluppo del dibattito e del ragionamento intorno al bene comune.

In generale, le funzioni determinanti per la crescita di una persona e centrali per la società dovrebbero prevedere specifici luoghi deputati allo svolgimento della funzione. È così per la crescita individuale, sostenuta dalla famiglia; è così per l’istruzione seguita dalla scuola; è così, in qualche modo, anche per i riferimenti etico-valoriali con la chiesa; e così dovrebbe essere anche per la politica. Non si tratta di fare un’elegia della sede, né di farsi prendere da una sorta di critica immobiliarista. Il punto fondamentale è che il concetto di “appartenenza leggera”, proiettato sui luoghi, in realtà è l’altra faccia di una visione individualista del percorso politico, nel quale il singolo “leader” ricerca il contatto con la base nel momento elettorale, senza alcun percorso di costruzione di una leadership dialettica: questa richiede luoghi di elaborazione, entro i quali vi sia un senso e un convincimento di continuità, a prescindere dal singolo.

In qualche modo il luogo fisico afferma che l’organizzazione e il suo senso devono sopravvivere a prescindere da chi li stia guidando pro tempore. Gli attuali non luoghi della politica sono figli di una stagione fatta esclusivamente di leader, o aspiranti tali, che costruiscono il loro percorso immaginando già la transitorietà del loro ruolo a quel dato livello, e quindi disinvestono sul territorio, sbilanciandosi verso alleanze leggere con opportuni think tank esterni, questi sì strutturati e in sedi prestigiose. Le scuole di partito, come anche le scuole sindacali, nazionali e regionali invecchiano e si indeboliscono; i contenuti decisionali vengono esternalizzati; la scelta conseguente è un disinvestimento nella sede, il primo luogo di incontro con il territorio.

Rispetto a questo l’esperienza di Forza Italia è stata un’espressione anzitempo del concetto di disintermediazione tanto caro agli analisti politici oggi – mediato, o copiato, o tentato, negli ultimi anni da tanti, incluso lo stesso Renzi. Questo porta a una dicotomia comune nell’esperienza di chi ha frequentato sedi di partiti od organizzazioni: da un lato stanno le sedi – quando e dove ancora ci sono – simili a non-luoghi o stazioni degli autobus, piene di scatole polverose di materiali abbandonati, sporche e fredde; all’opposto gli eventi che si svolgono in sale congressi di alberghi, certo più confortevoli ma altrettanto non luoghi.

Ma accetteremmo un tale svuotamento di senso dei luoghi per le altre funzioni? Accetteremmo come normale una scuola dentro un cinema o in una palestra, o la giudicheremmo una situazione di transitoria difficoltà? Eppure, per quanto riguarda la funzione politica, evidentemente lo accettiamo di buon grado, dato che lo abbiamo accettato negli ultimi 30 anni. I non luoghi della politica sono la logica conseguenza del fatto di avere disintermediato il rapporto con la base. Il punto critico di questo processo è che non si può attivare la partecipazione esclusivamente attraverso strumenti disintermediati. La disintermediazione nella politica non è bidirezionale come tanti sembrano credere: funziona in una sola direzione.

I processi partecipativi non funzionano sulla rete: sulla rete possiamo contare i numeri, i follower, le visualizzazioni, ma non si può perdere di vista il fatto che le persone hanno bisogno di un contesto fisico che sia di stimolo alla loro diretta partecipazione e congruente con le loro capacità cognitive. Nel momento in cui io metto delle persone in una stanza a parlare sto dando loro la possibilità non solo di dire e sentire qualcosa, ma anche di avere riscontro alle loro osservazioni in modo trasversale. Questa possibilità si annacqua nella rete, troppo grande e caotica: si possono registrare le singole voci ma non costruire un percorso. E allora si ritorna a quel ragionamento iniziale: la rete in realtà funziona in maniera verticistica, solo i luoghi consentono una partecipazione trasversale.

Questo il problema di un Forza Italia che deve fare i conti con l’assenza di “uomini e luoghi di mezzo”. Questa sembra essere anche l’illusione originaria dell’approccio renziano. Forza Italia e il PD renziano sono l’espressione della teoria della disintermediazione, molto più del M5S che partiva e mantiene tuttora localmente, l’esperienza dei meetup anche se dovrà inevitabilmente fare i conti con la sua istituzionalizzazione. Diversa ancora è la situazione della Lega, che vive ora la tentazione di un leaderismo disintermediato ma che deve convincere alla prova del confronto con un solido radicamento nei luoghi.

Occorre dunque affiancare ad una rete molecolare immateriale una rete di luoghi, entro la quale si strutturano relazioni, interessi e specialità; il che non significa che le sedi devono diventare elemento di socialità, ma che il territorio ha un ruolo fondamentale; e quindi nel territorio c’è bisogno di una sede che sia dignitosa in maniera non fugace, non estemporanea. Una fulminante imitazione di Fausto Bertinotti fatta da Corrado Guzzanti qualche anno fa, poneva l’accento sull’irreperibilità, anche fisica, delle sedi di Rifondazione Comunista sul territorio, che non solo scompaiono ma divengono sempre più evanescenti: “trovaci compagno, se ci riesci”. In fin dei conti, tutti sappiamo che a fare la differenza in una famiglia sono gli affetti e i progetti comuni, ma non puoi crescere dei figli senza un tetto e un tavolo.

L’unione, le sua differenze, le narrazioni nazionaliste

PERCHÉ IL «NOI EUROPEO» FINISCE SULLE PORTAEREI

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su Avvenire – 13 settembre 2016]

Guido Westerwelle, ministro degli Esteri tedesco dal 2009 al 2013, è prematuramente scomparso lo scorso 18 marzo. Interpellato sulle prospettive future dell’Europa al World Economic Forum di Davos del 2013 in un discorso lucido e brillante ha portato l’attenzione sulla necessità di realizzare che l’Europa «non è più al centro del mondo». All’interno di questo contesto, la posizione di Westerwelle prende le mosse da un assunto di base forte: l’Europa manca di materie prime e di energia che può sfruttare nel confronto globale e da sola l’India ha tre volte la popolazione di tutte le nazioni europee insieme. Pertanto, sempre secondo il ragionamento di Westerwelle, è necessario che ognuno ogni giorno in ogni Paese nell’Unione Europea si impegni per accrescere la propria competitività altrimenti «noi non sopravvivremo con il nostro stile di vita e perderemo la capacità di proteggere i nostri valori e la nostra libertà qui in Europa».

La ricetta che Westerwelle propone è data da tre ingredienti: disciplina fiscale (e progressiva riduzione del debito) per evitare la dipendenza dal sistema finanziario, solidarietà tra tutti i Paesi europei, crescita ottenuta tramite il rafforzamento della competitività e le riforme strutturali. Attraverso il rafforzamento prioritariamente del sistema educativo, formativo e della ricerca da un lato e gli investimenti sulle tecnologie energetiche dall’altro si potrà mantenere la competitività europea nello scenario internazionale. Il messaggio di Westerwelle teneva dunque insieme fine e mezzi: ma soprattutto non aveva timore di esprimere una volontà di affermazione del ‘noi europei’ rispetto al ‘loro, non europei’ in una consapevole valutazione di interesse e al contempo individuando nel controllo della capacità tecnologica per la produzione di risorse energetiche le armi su cui giocare la competizione internazionale. Riascoltare quel discorso in questi giorni fa un certo effetto. Viene da chiedersi se i fallimenti della politica estera europea sulle vicende nord africane e Medio Orientali così come le continue discussioni sulle tecnicalità finanziarie dell’euro non siano la causa ma l’esito di un difetto originario.

Il difetto originario. L’Europa unita nasceva per evitare che una nuova guerra potesse aver luogo tra le nazioni europee, in un mondo che era stato sino ad allora sostanzialmente Europacentrico e poi, nei decenni successivi, cristallizzato nei due blocchi: occidentale e sovietico. Negli anni della sua costruzione, memore delle guerre in casa propria e in un mondo ancora geograficamente ed economicamente ordinato, l’Europa si è negata intellettualmente e nella sua retorica la possibilità di definirsi per contrapposizione con ciò che l’Europa non era. Proseguendo su questa strada l’Unione si è inevitabilmente trovata impreparata a confrontarsi con il mondo post 1989-90, priva di una cornice di senso e di consenso per agire nel contesto internazionale globale. Passi significativi da allora, nonostante un contesto globale resosi sempre più fluido, non ne sono stati fatti. La debolezza e ambiguità nei confronti internazionali l’ha resa non solo facile preda al suo interno di bassi e scomposti pensieri autoritari, ma anche, come nel caso della Gran Bretagna, oggetto di messa in discussione formale circa la sua efficacia quale strumento per perseguire gli interessi nazionali nello scenario globale.

Non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca. E non si può pensare di creare un interesse europeo aggregante in assenza di una concettualizzazione di cosa sia il «noi europeo» anche, se serve, in giustapposizione a cosa Europa non è. Gli obiettivi illuminati vanno bene ma come sempre accade in politica richiedono di sapersi confrontare anche con ciò che sta nell’ombra. Chi ha fatto in questi anni il lavoro sporco di parlare alla pancia degli europei da una prospettiva europea? Nessuno. L’Europa ha continuato a presentarsi ai suoi cittadini come quella che doveva portare al mercato unico del 1992: magnifiche sorti e progressive, un inno alla gioia per un mondo fatto di città della cultura. È inevitabile che se le istituzioni europee – da questo punto di vista un gigante dai piedi di argilla – tacciono, finiscano per riemergere narrazioni nazionaliste, peraltro velleitarie. In questo momento l’Europa ha paura dei suoi cittadini. È dunque utopistico pensare che un aiuto all’Unione Europea possa arrivare adesso dalle regole di interazione interna, siano esse fiscali, finanziarie o sociali.

Per quanto fastidioso possa suonare, l’Europa e le sue istituzioni devono raccontarsi, prima che il loro consenso salti del tutto per aria, un po’ meno illuminate e molto più interessate alla difesa delle nazioni europee. Ecco perché, di colpo, siamo passati dall’Inno alla gioia ai meeting dei leader della Ue sulle portaerei.

IL VENETO DELLE BANCHE, UNA SOCIETÀ SENZA ANTAGONISTI

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso il 11 giugno 2016]

Hanno ampia eco in questi giorni le prese di posizione delle associazioni di rappresentanza: il giudizio nei confronti delle vicende degli istituti bancari e, più in generale, il richiamo alla necessità, per la società veneta, di una responsabile consapevolezza dei propri limiti. Non serve fare un riassunto del dibattito.

Ebbene, attenendomi al richiamo, voglio mettere in luce un elemento di profonda e intrinseca debolezza nel mondo della rappresentanza politica e associativa. La debolezza risiede nella strutturale incapacità di generare posizioni antagoniste. Si potrebbe dire, con una lettura sociologica, che nella società veneta si teme una competizione aperta sui tavoli politici. Le crisi – adesso si discute di quelle bancarie – generano smarrimento, spaesamento: ma mai sono cavalcate da alcuna leadership emergente. Questo è il problema!

Non si vedono seconde guardie che, approfittando della situazione di debolezza, spodestano alcuno. Perché questo non succede? Nel mercato se io mi indebolisco, qualcuno prende il mio posto. È questa costante tensione che ci porta ad un continuo e salutare adattamento competitivo. Ad un politico navigato, una decina di anni fa, quando in Veneto si parlava di termovalorizzatori, avevo chiesto quale effetto avrebbe avuto su un sindaco chiamato a dover decidere per il proprio comune, il fatto che il suo partito si fosse espresso a favore di un utilizzo dei termovalorizzatori. La sua risposta è stata chiara e ferma: “Non puoi chiedere ad un sindaco di condannarsi alla morte politica. Il sindaco risponderà ai suoi referenti, che non sono il partito nazionale ma la sua rete di consenso locale. Se si esprimesse in linea con il partito senza costruire un consenso attorno, qualcuno prenderebbe il suo posto”.

Il problema dunque non è quello che è successo nel sistema bancario veneto, ma ciò che non è successo durante e all’apice delle crisi. Non si poteva pensare che chi stava a capo delle banche le riformasse dall’interno perché, anche ammesso che ci fosse l’interesse soggettivo a farlo, non avrebbe avuto il consenso per portarlo a termine. Nello stesso tempo, sarebbe chiedere troppo alla nostra intelligenza dimenticare che le tensioni con la Banca d’Italia proseguivano da anni. Dunque, in teoria, non è mancato né il tempo né lo spazio perché emergessero delle leadership alternative. Dare la colpa a Banca d’Italia per non aver adeguatamente vigilato serve a poco per il futuro. Se la classe è indisciplinata con la maestra, la soluzione non è certo mettere una bidella a controllare. Il fatto sostanziale è che mentre Banca d’Italia sollevava eccezioni, non è emersa alcuna linea antagonista che fondasse la sua legittimazione sulla domanda di discontinuità. Nessuno ha costruito una leadership alternativa.

Quali sono dunque gli anticorpi che un sistema, tutti i sistemi, basati sulla rappresentanza e sul consenso devono darsi? Esattamente la possibilità di poter generare al loro interno delle linee di pensiero antagoniste: un dissenso regolato le cui basi stesse delle regolazioni si fondano in una seria rendicontazione delle scelte e della gestione di chi è invece pro-tempore al governo. Senza appellarsi a meccanismi formali. Se non facciamo questo salto, che richiede di accettare che la concorrenza non è solo nel mercato ma anche nel governo dei beni collettivi, possiamo già prepararci alla prossima crisi.