Il Veneto dei flussi viaggia lungo la Pedemontana

[di Luca Garavaglia ]

Il 28 dicembre 2023 è stato inaugurata l’ultima tratta della Pedemontana Veneta, tra Malo e Montecchio Maggiore, e nella primavera del 2024 sarà completato l’allacciamento tra la nuova infrastruttura e l’autostrada A4, sempre a Montecchio. E’ finalmente giunta a compimento un’opera lungamente attesa, che ha portata strategica perché ridisegna completamente non solo la geografia dei flussi del Veneto, ma anche quella dell’intero sistema del Nord-Est.

Alla dimensione regionale, la nuova autostrada definisce finalmente condizioni di accessibilità dignitose a tutta l’area pedemontana, che rappresenta una componente di primaria importanza del sistema manifatturiero veneto. La riduzione dei tempi di connessione alle città e ai mercati comporterà conseguenze immediate (una riduzione dei tempi del pendolarismo e di quelli della logistica merci), ma anche effetti di medio-lungo periodo rendendo quei territori più appetibili per l’insediamento di nuove imprese e di nuovi residenti.

A una scala più ampia, la Pedemontana veneta costituisce un rafforzamento significativo dell’intera porzione italiana del corridoio V (qualche anno fa chiamato Corridoio Barcellona Kiev!), che taglia la pianura padana in direzione Ovest-Est: i mega-corridoi performanti infatti non sono solo assi autostradali o ferroviari, ma richiedono la presenza di “fasci di infrastrutture” parallele e interconnesse, che garantiscano piena permeabilità al territorio e diano la possibilità ai flussi di prendere direttrici alternative in caso di congestione o blocchi. In altre parole, non sono solo sistemi ad alta capacità, ma anche sistemi a alta ridondanza. La nuova autostrada consentirà al Veneto di inserirsi pienamente nel sistema dei flussi macro-regionale e trans-nazionale lungo il quale oggi si organizzano le filiere produttive allungate, i sistemi delle conoscenze, i mercati del lavoro.

Missione compiuta, quindi? In realtà per il completamento della griglia del corridoio mancano ancora alcuni interventi importanti: sia per quanto riguarda le connessioni nord-sud, a integrazione dei grandi assi per l’Austria, sia relativamente alla connessione tra Pedemontana e rete autostradale friulana. Perché la regola del “fascio di infrastrutture” non può riguardare solo tratte parziali dei corridoi, ma deve interessare la loro intera lunghezza. La Superstrada veneta collega le città pedemontane da Vicenza a Pordenone: la prosecuzione diretta verso il Friuli e il valico di Tarvisio – senza dunque la ridiscesa verso la A4 – completerebbe il corridoio.

Un altro tema di rilevanza strategica resta poi quello dell’alta velocità ferroviaria, che costituisce oggi il principale vettore di scambio e integrazione di flussi (non solo di persone, ma anche di conoscenze) tra le grandi aree metropolitane. La connessione rapida su ferro tra l’area centro-veneta e Bologna e Trieste è un requisito necessario per la saldatura del sistema economico della macro-regione del Nord, senza la quale le visioni del “nuovo triangolo dello sviluppo” tra Milano, Bologna e Venezia rischiano di restare solo retoriche.

Che cosa rende attrattiva una citta? I dilemmi contemporanei per il Veneto policentrico

[di Sergio Maset]

Le singolarità – siano esse uomini o aziende straordinarie – contano eccome. Tuttavia, la sostenibilità di una società non si misura nel grado di successo di pochi eccellenti quanto nella sua capacità di trasformare i buoni esempi in opportunità e queste in occasioni e strumenti di crescita diffusa. Per questo la relazione tra sistema produttivo, istituzioni, scuole e famiglie va costruita e alimentata. Una città può dirsi tale, a prescindere dalla sua effettiva dimensione, se riesce ad essere il luogo in cui questa consapevole relazione viene rinnovata e si traduce in rappresentanza.

Dopo quasi mezzo secolo di fuga dalle città più grandi, per la prima volta negli ultimi anni assistiamo ad una loro rinnovata crescita demografica. Si può provare a comprenderne le ragioni considerando l’effetto combinato di una serie di fenomeni di medio e lungo periodo. Il primo è dato dal fatto che le città, grazie a decenni di normative e investimenti sui motori delle auto, sul rinnovo degli impianti di riscaldamento, sulle emissioni industriali e, non da ultimo, attraverso lo spostamento al di fuori delle città dell’industria pesante, oggi non sono più le camere a gas che erano sino a qualche decennio fa. Il secondo fenomeno riguarda il mercato immobiliare che a fronte di un rallentamento della spinta demografica e con il mondo del terziario in profonda trasformazione ha visto abbassarsi le rendite e dunque i prezzi di affitti e vendite. Insomma, dopo una lunga fase in cui le città erano appannaggio di benestanti, banche e assicurazioni, il mercato torna ad essere appetibile per un ceto medio un po piu giovane e per negozi nuovamente a dimensione di vicinato. Considerato che in molte città si pone la necessità di metter mano a progetti di rinnovamento urbano (dai padiglioni fieristici alle caserme passando per mercati generali e fabbriche abbandonate) c’è la possibilità di sostenere ulteriormente una crescita demografica delle città con politiche abitative che coniughino qualità, centralità e disponibilità del portafoglio delle giovani famiglie.

La parte più complessa e stimolante della faccenda sta nel fatto, e qui vengo più direttamente al Veneto, che dopo quarant’anni di crescita generalizzata della domanda di forza lavoro, nell’ultimo decennio siamo in una situazione di sostanziale stagnazione a cui si aggiunge l’invecchiamento della popolazione per cui il rapporto tra occupati e popolazione anziana continua a precipitare. La situazione è per certi versi paradossale: da un lato non possiamo più permetterci di estromettere le donne dal mercato del lavoro e dall’altro dobbiamo trovare il modo di conciliare la loro maggiore inclusione con un aumento del numero di figli per ogni famiglia. Insomma, rivoluzionare l’immagine della famiglia. Non si tratta ovviamente di una sfida solo veneta: vale anche per le altre regioni del nord, con l’eccezione del solo Trentino Alto Adige.

Con l’arresto della spinta demografica e le molteplici trasformazioni del terziario (digitalizzazione dei servizi e ecommerce in primis) i prezzi nei capoluoghi di provincia diventano più accessibili e la popolazione riprende a concentrarsi nella città. Ma se ciò vale per i capoluoghi, che continuano localmente a svolgere il loro ruolo di città – in Veneto persino Belluno e Rovigo sono cresciuti nell’ultimo decennio – la sfida appare del tutto aperta per le piccole e medie cittadine, tra i 20 e i 40 mila abitanti. Che cosa può rendere attrattiva una di queste città? Ogni città, grande o piccola, che aspiri a ricoprire fattivamente questo ruolo, deve interrogarsi su come perseguire 3 obiettivi. Prima di tutto creare condizioni durature di espansione economica. Va rifiutata la retorica della decrescita felice mentre sono da perseguire forme sostenibili e responsabili di espansione, di crescita economica. Il secondo obiettivo è quello di inclusione che si traduce nella capacità di impiegare efficacemente le risorse umane di un dato territorio, donne e giovani in primis. Il terzo obiettivo è quello di conciliazione che significa rispondere al bisogno delle persone di vivere al meglio la pluralità di dimensioni della loro esistenza: conciliare dunque cura famigliare, impegno lavorativo, partecipazione sociale, ricreazione, cura del proprio benessere fisico.

Provando a scendere dunque nell’esperienza di analisi di Vittorio Veneto, il primo obiettivo, l’espansione, richiede di prendere consapevolezza che il presente del sistema produttivo della città si caratterizza ancora per una fortissima presenza industriale: il 40% degli addetti che operano nel comune lavora nell’industria manifatturiera, con una larghissima prevalenza di grandi imprese. In generale, queste rappresentano una risorsa per tutto il sistema produttivo in quanto sono le uniche in grado di stimolare l’acquisizione di ulteriori competenze da parte dei lavoratori, di sostenere la diffusione di innovazione, la concreta nascita di startup innovative oltre ad alimentare un indotto locale di piccole imprese. Ed è con aziende di grande dimensione che la città può sperimentare concretamente forme di innovazione sociale finalizzate a realizzare una maggiore inclusione dei giovani e delle donne. Ciò deve tradursi ad esempio in una più efficace attività di orientamento scolastico per i ragazzi delle scuole medie e le loro famiglie ma anche in una rete di servizi per la prima infanzia e sostenendo forme di smart working. Un territorio si può definire lungimirante nel momento in cui riesce a valorizzare e ottimizzare le sue esperienze di valore incluse quelle maturate sul versante dei servizi sociosanitari. Trattandosi di una città che ha molto da offrire in termini di qualità degli spazi urbani, le sue concrete possibilità di crescita sono legate alla capacità di trattenere e attrarre giovani famiglie facendo leva anche sulla vicinanza del centro storico al casello autostradale e sul rilancio del collegamento ferroviario con Treviso e Venezia. Infine, una città che si rende attraente agli ospiti, ai lavoratori e ai visitatori delle sue imprese attraverso servizi e proposte di qualità per il benessere, la ristorazione e il tempo libero diventa più interessante anche per le giovani famiglie.

COLTIVARE LA PARTECIPAZIONE POLITICA LOCALE

[in TESSENDO IL FUTURO. Nuove relazioni per la città di Vittorio Veneto

a cura di Sergio Maset, PostEditori, Padova, 2018]

Le pagine che seguono traggono lo spunto da uno studio sulle caratteristiche socio-economiche della città di Vittorio Veneto, commissionato dall’amministrazione comunale della città. Lo studio ha fatto emergere una sorta di distonia tra il presente produttivo, caratterizzato da numerose realtà industriali attive e dinamiche e la narrazione che la città rende di sé, talvolta più orientata alla rievocazione nostalgica che al presente. Tuttavia, anche la comprensione del presente non basta per volgersi al futuro. Per ragionare di futuro bisogna condividere interrogativi e confrontarsi su prospettive, interessi e desideri. A costo di suonare retorico, è sempre la politica a dover tessere il futuro. Avere la possibilità di una committenza che stimola e pone domande di prospettiva è una fortuna non comune di questi tempi. Un riconoscimento va dunque alla volontà dell’amministrazione di Vittorio Veneto per aver portato avanti questo lavoro, agli uffici comunali che hanno collaborato alla sua realizzazione e a quanti con le loro riflessioni hanno arricchito i contenuti e le prospettive del volume.

Alla base del dialogo vi è il lavoro di analisi socioeconomica della città e del suo territorio, le cui principali risultanze sono riportate nel Capitolo 1. Tale analisi restituisce per Vittorio Veneto un quadro robusto nel quale delineare un percorso di crescita. L’aggettivo “robusto” viene qui utilizzato in una duplice accezione: innanzitutto robusto significa basato su dati, evidenze empiriche, tendenze reali; e questi dati – ecco qui la seconda accezione di robustezza – restituiscono un territorio caratterizzato da tutta una serie di asset strategici che possono essere fatti agire per sostenere la crescita.

In che senso, e per quale obiettivo, si ragiona di utilizzo degli asset strategici? Su questa domanda si innesta la riflessione politica in senso stretto: quali siano le condizioni per una crescita della città. Ovvero, quali siano le modalità e le logiche secondo cui una città definisce le condizioni della sua sopravvivenza e della sua crescita, in quanto organizzazione finalizzata al miglioramento della vita dei cittadini. Per ogni città, infatti, la crescita si sostanzia nel creare ai propri cittadini le condizioni per la loro sostenibilità nel tempo. Questo approccio richiede evidentemente una prospettiva temporale di medio periodo: ciò vale a dire, non solo porsi l’obiettivo di risolvere i problemi contingenti ma creare oggi le condizioni perché nel domani vi sia sostenibilità. La sostenibilità non significa invarianza: al contrario, significa evoluzione guidata dalla volontà di continuare ad “essere città”. Proviamo dunque a capire cosa intendere per crescita.

Crescere, per una città, significa prima di tutto crescere sul versante demografico. La crescita demografica è l’espressione della capacità di trasmettere prospettiva, desiderabilità, valore. Esiste, da questo punto di vista, un elemento significativo che caratterizza la città e che è ciò che determina la distinzione tra luoghi e non luoghi: la caratteristica dei luoghi, principalmente, è la non fugacità. Io divento cittadino di un luogo nel momento in cui lo vivo non transitoriamente. Essere città non è nemmeno un fatto quantitativo. Da questo punto di vista la consistenza numerica non è la caratteristica che distingue la città come luogo rispetto ai non luoghi. L’aeroporto di Venezia vede passare milioni di passeggeri ogni anno, ma non è certo una città. In questo senso la componente demografica, la cittadinanza, rileva per i luoghi in maniera completamente diversa dai transitanti – persone che fruiscono del luogo solo per un passaggio – come anche dagli utilizzatori – persone che fruiscono del luogo per lo svolgimento di una specifica funzione -, che possono essere in numero anche enormemente maggiore ma non sostanziano per sé una comunione di interessi.

Quindi la crescita significa prima di tutto crescere da un punto di vista demografico, e in particolare nelle componenti in età fertile, ovverosia le giovani famiglie. Quando un cittadino sceglie di risiedere, pur avendo ovviamente la possibilità di cambiare, compie la scelta riconoscendo una prospettiva di non transitorietà ovvero di potenziale stabilità nel tempo. L’orientamento alla sostenibilità di una città come Vittorio Veneto si misura dunque nella capacità di attrarre la componente giovane della popolazione: in questo senso, la capacità di una comunità e della sua amministrazione di fornire elementi atti a favorire il processo di autonomizzazione dai nuclei familiari di origine diviene anche, di riflesso, capacità di attrarre giovani famiglie, di incrementare la natalità, di ri-densificare la residenzialità nel centro urbano. Il tema dell’autonomia dei giovani si conferma strettamente e prioritariamente collegato alla costruzione del proprio percorso professionale lavorativo. Un primo passo necessario per l’autonomia consiste, quindi, in un’offerta lavorativa “di qualità” (ovvero, con caratteristiche di stabilità, valorizzazione del contributo individuale, possibilità di crescita) tale da stimolare la popolazione giovane a sviluppare nell’area vittoriese il proprio percorso di vita. E per questo, oltre alla presenza di un sistema di istruzione e formazione efficiente, occorre anche capacità di tessere relazioni, di ri-vivificare un tessuto di associazionismo, partecipazione che per i giovani diviene spazio di crescita e insieme arena di opportunità professionali.

Il definirsi cittadino di un luogo ha un significato che si intreccia strettamente con la dimensione territoriale nell’elaborazione politica. Quest’ultima tende generalmente ad articolarsi per ambiti tematici (industria, formazione, sanità ecc.) ed a svilupparsi verticalmente, spostando essenzialmente il livello del dibattito alla scala nazionale se non europea, secondo una logica per cui si discute dove si prendono le decisioni e dove vi sono le risorse economiche per alimentare le necessarie competenze. Tuttavia il prevalere della logica di pertinenza e competenza apre un dilemma: sulla base di quale principio si possono creare e garantire le risorse all’attività di elaborazione politica locale? Che questa abbia un suo senso pare evidente, perché se non qui e ora, allora quando e dove devono essere elaborate le scelte che riguardano il cittadino di Vittorio Veneto? Non si tratta evidentemente di un rigurgito neo-municipalista quanto di avere consapevolezza che la partecipazione politica richiede di mantenere animata la sua componente locale. Muoversi esclusivamente secondo il principio di pertinenza amplifica infatti a dismisura la distanza tra lo spazio della vita e quello dell’elaborazione e porta a circoscrivere la pratica di elaborazione politica entro circuiti limitati, indebolendo progressivamente la capacità di un territorio di generare innovazione di pensiero e agire un’efficace azione di rappresentanza.

Ne discende che il dilemma con cui dobbiamo fare i conti sta nella possibilità di trovare un equilibrio tra l’applicazione di princìpi di competenza e di pertinenza (che tendono a seguire logiche verticali), e la necessità di agire luoghi e momenti di elaborazione politica locale evitando di creare delle burocrazie aggiuntive. E tutto ciò riporta al tema di questo lavoro. Nel dialogo sulla città si affrontano i temi del rapporto tra industria e formazione, delle soluzioni per un invecchiamento attivo della popolazione, di istruzione, di infrastrutture: tutti temi che hanno una competenza finanche europea. Qui la domanda è: possiamo, per questo, permetterci che di questi temi se ne discuta solo a Bruxelles, o solo a Roma, o solo a Venezia? Certamente no: il tessuto locale per poter esprimere un’efficace rappresentanza deve riuscire a declinare in una prospettiva generale gli interessi specifici che emergono nel suo proprio ambito: che si tratti di elettrificazione della linea ferroviaria, di collegamento tra autostrada e zona industriale o di finanziamento agli istituti superiori.

Proviamo dunque a delineare i temi per una possibile agenda. Se la crescita significa innanzitutto crescita demografica nelle componenti in età fertile, ovvero giovani e famiglie, è necessario provare a interrogarsi su quali sono i fattori che rendono una città attraente. Le città hanno sempre una funzionalità frammentata, inclusiva, necessariamente conciliativa, democratica e plurale. Non può esserci un’àncora prevalente ed esclusiva che trattiene i cittadini e ne spiega la crescita. Le città con ancore funzionali prevalenti, finiscono per essere esse stesse per lungo tempo non luoghi, inserite in altre soggettività urbane: ne sono esempio Sesto San Giovanni rispetto a Milano e alla Breda, Marghera rispetto a Venezia e al Petrolchimico e, per certi versi, anche Pordenone rispetto all’Electrolux. Ma non è certamente il caso di Vittorio Veneto. Com’è allora la città che attrae? Anche se ognuno di noi può essere attratto per varie ragioni, le analisi di geografia economica e di sociologia del territorio ci dicono due cose. In prima istanza, sarà la prospettiva di occupazione a guidare l’individuazione di un’area potenziale in cui risiedere: ma sarà poi la valutazione dell’attrattività sociale di un determinato luogo a determinare la scelta di effettiva localizzazione. In altri termini: posso decidere di vivere in una certa zona del Veneto, e in un certo ambito della provincia, ma poi il fatto di scegliere un Comune piuttosto che un altro dipende dall’offerta effettiva, immobiliare, di servizi, di qualità del vivere. [1]

Va detto, e questo è un dato recentissimo, che a fronte di una tendenza che dagli anni Settanta ai primi anni Duemila ha visto una forte propensione a uscire dalle grandi città, ora la città torna ad attrarre. La crisi delle grandi città ha raggiunto il suo apice negli anni Novanta, per poi arrestarsi. In Italia la prima città a vedere l’inversione è Milano, ma si tratta di una dinamica che sta iniziando a interessare tutte le grandi città del Nord Italia. Cosa c’è dietro questa tendenza? In controluce si intravvedono varie componenti: una nuova declinazione del moto futurista verso la modernità, reinterpretato però intorno ai concetti di sostenibilità, di attenzione per il benessere fisico e culturale. Cosa sta succedendo? Succede che la città ha smesso di essere luogo grigio e anzi, diventa il laboratorio di un migliore equilibrio, di un uso più efficiente delle risorse, di una maggiore attenzione alla propria salute, alla cura del corpo, alla ricerca del bello e dell’arte. La città non è più emblema del grigio. Al contrario, è emblema del green, e della sostenibilità. È il cantiere in cui si elaborano forme di conciliazione tra ambiente, esigenze delle persone ed economia. Ed è interessante vedere che la fuga dalle città si è arrestata. Forse questi sono i primi segni dell’emergere di un nuovo ceto medio, i cui esiti si vedranno forse di qui a dieci anni. Una nuova classe che inizia a sostanziarsi ricercando intanto la residenza nella città, su una nuova base, forse più democratica, certamente più accessibile.

È indubbio che la fuga dalle città è stata in passato anche una fuga per la ricerca di una migliore qualità della vita. Vivere bene nelle città degli anni Ottanta richiedeva di essere benestanti. A parità di risorse nominali, il progressivo indebolimento economico del ceto medio ha spinto le giovani coppie a spostarsi nelle periferie e da qui nelle prime, seconde e finanche terze cinture delle città. Adesso sembrano gettarsi i semi per una nuova fase rigenerativa delle città. Si tratta di prendere atto della fine del processo di gentrification dei centri, cioè quello per cui le aree centrali delle città hanno assunto un mono profilo funzionale – solo servizi finanziari, banche, assicurazioni e boutique – e sociale, solo famiglie ad alto reddito, escludendo il ceto medio e certamente le giovani famiglie. Emergono ora nella città spazi per forme e luoghi di consumo e produzione nuovi, e per ripensare ad una residenzialità più accessibile.

Anche Vittorio Veneto potrebbe trarre vantaggio da questa prospettiva: pur non rientrando nell’ambito delle grandi città, ha avuto una dinamica molto simile ad esse: ha vissuto storicamente grandi industre al suo interno; le sue fasi di de-urbanizzazione hanno seguito i tempi delle grandi città. E come altre condivide un presente industriale molto più moderno, avanzato e internazionalizzato di quanto si tende a raccontare. Da qui dunque la sfida di raccogliere e sviluppare il senso contemporaneo dell’essere città: un luogo di restituzione, di incontro e di elaborazione.

La struttura del volume è espressione di un lavoro a più mani. Si parte dall’esposizione dell’analisi economica e sociale; segue una riflessione, curata da Giovanni Napol sulla relazione tra le componenti produttive della città e sull’interazione di questo presente industriale con il terziario professionale e di alto profilo tecnico. Segue la testimonianza di Chiara Mazzer, che vive la realtà vittoriese da imprenditrice, volta a ridare linfa alla relazione tra città e siti produttivi, non in quanto semplicemente coesistenti su uno stesso territorio, ma in quanto portatori di istanze e suggestioni per le quali è vitale trovare una conciliazione. Un altro grande tema di riflessione, sviluppato con il contributo dei presidi di tre istituti scolastici superiori, è quello del rapporto con l’istruzione e la formazione tecnica e scientifica. La questione è vista come rapporto tra tre sfere: la scuola, le famiglie (e questo significa i cittadini, che diventano anche stakeholder rispetto al sistema industriale e produttivo), e il mondo imprenditoriale. Un tema complesso, talvolta banalizzato nella retorica attuale. Il mantenimento di una adeguata vita della città e nella città, mentre l’invecchiamento della popolazione pone sotto i riflettori la necessità di ripensare ai servizi socio-sanitari, è al centro della riflessione proposta da Maurizio Castro. Il compito di leggere tra le righe degli approfondimenti e del dibattito gli stimoli concreti con cui sviluppare un’agenda programmatica della città di Vittorio Veneto è affidato nel capitolo finale a Roberto Tonon.


[1] Feltrin P., Maset S. (2012), Le onde lunghe dello sviluppo territoriale del Nord, in Perulli P. (a cura di), Nord. Una città-regione globale, Il Mulino, Bologna.

Feltrin P., Maset S., M.Zanta, (2014), La sfida della modernità negli ambienti alpini, Il Poligrafo, Padova.

Maset S., (2015) Le densità inattese. Piattaforme produttive implicite nella provincia di Treviso, Quaderni dell’Osservatorio, Osservatorio Economico e Sociale di Treviso, Treviso

TERRITORIO, CAPANNONI E LE REGOLE CHE MANCANO

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su Monitor di VeneziePost – 22 Marzo 2015]

La discussione sullo sviluppo insediativo, residenziale e produttivo nella provincia di Treviso ha ormai raggiunto i vent’anni. Nella seconda metà degli anni Novanta, i riflettori mediatici si sono accesi sul fenomeno Nordest e accanto alle evidenze macroeconomiche ha iniziato a prendere piede un dibattito, spesso sterile, sui costi di questo sviluppo. La provincia di Treviso – e così tutto l’arco pedemontano, da Verona a Pordenone – in cinquant’anni ha visto crescere la popolazione di circa 270 mila abitanti, aumentata del 44%; si è compiuta una conversione da un’economia ancora ampiamente agricola a una pienamente manifatturiera (oggi è ancor più corretto parlare di “manifatturiero terziarizzato”); inoltre, a dispetto delle profezie di declino industriale (pre-crisi e nel corso della crisi), Treviso si attesta ottava provincia esportatrice in Italia (dati Istat) e settima in Europa per vocazione industriale (secondo una recente ricerca della Fondazione Edison) in una graduatoria che vede ai primi tre posti, nell’ordine, Brescia, Bergamo e il territorio di Wolfsburg.

Che il paesaggio si sia fortemente trasformato è evidente. Generalmente le valutazioni di questa trasformazione sono negative senza però andare oltre a una lettura superficiale. Oggi possiamo hiederci dato il momento storico, in questa provincia poteva realisticamente andare diversamente? Se si va a vedere altri territori con analoga vocazione industriale, tassi di crescita economica e demografica simili, il panorama non sembra molto diverso. Detto in altri termini, sarebbe stato difficile non attendersi una proliferazione di zone industriali (oggi sono 1077 distribuite in 95 comuni), in un contesto di decentramento “in orizzontale” della storica impresa fordista, con una forte domanda di territorio da parte di un’imprenditoria di piccola dimensione (si ricorda soltanto che a Treviso, tra il 1971 e il ‘91, il numero delle unità locali operanti nell’industria più che raddoppia, passando da circa 10 mila a oltre 23 mila), con un assetto normativo quale quello italiano in cui i comuni hanno piena autonomia in materia urbanistica.

Ora, la realtà ci restituisce un quadro sociale ed economico più complesso di quello di 20 anni fa. Convivono diverse istanze che agiscono sul territorio – dalla attesa di (ri)messa a valore dei capannoni dismessi, alle richieste di ampliamento delle imprese, dalla domanda di occupazione a quella di riqualificazione del paesaggio, dalle richieste di nuove aree produttive alle istanze di salvaguardia del terreno agricolo. Una ricerca dell’Osservatorio Economico e Sociale della provincia di Treviso presentata in questi giorni, ha evidenziato che anche in un contesto ad alta frammentazione quale quello trevigiano, circa il 60% delle superfici produttive è concentrato in 28 piattaforme e che all’opposto, la percezione di disordine insediativo appare riconducibile al 15% della superficie produttiva, distribuito però in zone pulviscolari. I cluster produttivi che emergono dall’analisi sono in larga parte di natura sovracomunale, ovvero si sviluppano a cavallo di più comuni. Rispetto poi al tema del patrimonio immobiliare inutilizzato, un approfondimento su tre aree interessate da altrettante piattaforme ha rilevato che l’incidenza degli immobili produttivi inutilizzati varia, tra i casi, dal 10% sino al 20%. Un fenomeno dunque di assoluto rilievo.

Partendo da questi dati e lasciando da parte le retoriche del ripiegamento e della decrescita, si tratta evidentemente di riflettere se, a fronte di un quadro più articolato culturalmente, politicamente ed economicamente, sono ancora attuali gli strumenti normativi e regolativi e i livelli di attribuzioni delle competenze. Alcuni punti sono da subito individuabili e andrebbero affrontati. Bisogna domandarsi sino a che punto ha ancora senso una rigida classificazione per destinazioni d’uso in tutte quelle situazioni in cui non sono presenti attività o ad elevato rischio o ad intrinseca attrazione di grandi volumi di traffico. La compresenza di attività artigianali, terziarie ed industriali è possibile senza che da tale mescolanza si generino esternalità negative.

Nell’esperienza comune – inoltre – si vedono spesso piccoli fazzoletti di verde tra i capannoni. Derivano in molti casi dall’applicazione di standard, di cui si fatica a coglierne la razionalità. Gli spazi verdi richiedono una estensione adeguata per poter assumere e far percepire un reale valore. Il criterio convenzionale di distribuzione di parcelle di verde a standard nell’ambito di una pianificazione comunale non ha generato ampi corridoi verdi – che mancano nei contesti più urbanizzati – ma fazzoletti di degrado e abbandono. La responsabilità delle scelte in materia urbanistica resta incardinata in capo alle amministrazioni e agli uffici comunali e le recenti riforme sugli enti locali non hanno toccato l’impianto delle competenze. Far affidamento alla volontarietà delle singole amministrazioni di cooperare è irrealistico prima ancora che illusorio. Se si vuole oggi coordinare il nuovo sviluppo con la riqualificazione, la scala di pianificazione generale e di valutazione delle leve perequative e compensative in materia di insediamenti produttivi deve essere sovra comunale, quanto meno a livello di ambito distrettuale.

Un ulteriore elemento, strettamente connesso ai precedenti, riguarda la questione della semantica dei piani e dei regolamenti. I piani comunali sono costruiti solo in parte adottando denominazioni e classificazioni comuni. La composizione di un piano sovra comunale richiede, stanti le differenze semantiche, una attività di normalizzazione spesso non banale in ordine di tempo e di costi operativi. Analogamente avviene per i regolamenti edilizi, esito di sedimentazioni successive proprie per ciascun comune. Il risultato è che una attività di programmazione intercomunale, che consenta anche una valutazione integrata di oneri, perequazioni e compensazioni risulta forzatamente rallentata a prescindere dalla volontà politica delle amministrazioni. Si tratta di provare, fuori di retorica, ad essere davvero smart.

Un’ultima considerazione riguarda l’obiettivo generale a cui tendere. I processi di riqualificazione, rigenerazione e, più in generale, il perseguire un miglioramento della qualità complessiva del territorio, richiedono di riuscire ad utilizzare come leve non solo il ruolo regolatore delle amministrazioni ma anche e soprattutto l’interesse privato. Stante le caratteristiche del sistema economico provinciale, qualsiasi scenario si voglia disegnare deve comunque rispondere a un obiettivo di rafforzamento della capacità produttiva manifatturiera di generare valore aggiunto ed esportazioni, elementi questi che si riflettono sull’occupazione diretta, indiretta e indotta. Bisogna dunque capire come evolvono gli spazi fisici entro i quali si realizza la produzione, quali sono le forme e le dimensioni che chiede il sistema produttivo del 2020.

CITTÀ, IMMOBILI E UN MERCATO CHE NON SA COMUNICARE

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su VeneziePost – 12 Novembre 2014]

Tra il 1961 e il 2001 la popolazione dei 5 capoluoghi più popolosi del Veneto (Venezia, Verona, Padova, Vicenza e Treviso) è rimasta sostanzialmente stabile mentre quella delle loro prime cinture è cresciuta dell’85%. Ancora, nel decennio tra il 2001 e il 2011 le prime cinture sono cresciute di circa il 15% mentre i capoluoghi solo del 3,5%. Fin qui nulla di nuovo: il fenomeno è stato anche troppo descritto e interpretato. Il problema è che quasi sempre la lettura si è limitata a ipotizzare una sorta di attrazione dell’ambiente (pseudo)rurale: «le gente vuole vivere nelle case a schiera in mezzo alla campagna. Ma se davvero la città attrae meno, come mai la popolazione si è accalcata intorno ai suoi confini? Con tutti i distinguo del caso, l’immagine mi ricorda le scene dei profughi ai valichi di frontiera. Davvero la gente non vuole vivere in città?

Se si va a vedere cosa è successo nelle province venete in cui non c’è stata esplosione demografica (Belluno e Rovigo) tra il 1962 e il 2001 la popolazione dei capoluoghi è cresciuta mentre quella delle loro cinture è calata; nel decennio successivo le cinture sono cresciute ma comunque meno dei capoluoghi. Si potrebbe dire che Belluno e Rovigo sono più piccole degli altri capoluoghi e che per questo sono state meno repulsive. Falso! La stessa dinamica di crescita è accaduta anche nei suoi centri medi: ad esempio Conegliano e Castelfranco, simili per dimensione a Belluno e Rovigo. Anche qui la popolazione si è addensata intorno ai comuni di cintura, replicando a scala ridotta quanto accaduto nei centri maggiori. Tutto questo dovrebbe suggerirci una conclusione: la gente è attratta dalla città e se non ci vive è (anche) perché a parità di costo non riesce a trovare un’offerta rispondente alle sue esigenze, ma cerca di restarvi il più vicino possibile perché nelle città più grandi si trovano i servizi che non si hanno nel resto del territorio. Alla fin fine non è altro che quello che l’Europa intende quando parla di città come motori dello sviluppo. Ciò dovrebbe far riflettere per il futuro. Se si accetta l’idea che il mercato non è così inesorabilmente attratto dalle villettopoli, forse, per la generazione che cercherà casa oggi e nei prossimi anni, la città è il luogo in cui desiderare di vivere. A condizione di potervi accedere a un costo che non può essere quello riservato al mercato ricco. Ora, siamo sicuri che anche nell’offerta immobiliare non ci sia un problema di incontro domanda-offerta? Si dirà: «è ovvio che c’è, le case non si vendono». Non è di questo che parlo. La domanda è: siamo sicuri che i contenuti dell’offerta vengano sempre considerati dai potenziali acquirenti come dei contenuti rilevanti e non piuttosto dei frills (degli sfronzoli) che aumentano il costo più di quanto non aumentino il valore? Per capirci, in un quartiere tutt’altro che “affluent” di un capoluogo veneto stanno costruendo un complesso residenziale con piscina, affaccio diretto su un vecchio e grande complesso di edilizia popolare e con la piscina comunale a 500 metri. In bocca al lupo ovviamente per l’iniziativa, ma, in generale, non è certo aumentando i costi di gestione degli immobili che posso incentivare l’acquisto.

Secondo esempio. Gli annunci immobiliari continuano a traboccare di inserzioni con foto invisibili e messaggi del tipo “travi a vista”, fregi in gesso sul frontale e giardino privato: poi magari l’appartamento è di 50 metri quadri e il giardino è più piccolo dell’appartamento. Terzo esempio. La ricerca spinta di certificazioni costa in termini di progettazione, realizzazione e manutenzione. C’è il rischio che nella rincorsa dell’ottimo (la casa iper-efficiente) si introducono fattori di costo che respingano ancora una volta anziché attrarre nelle città. Su questi punti varrebbe la pena riflettere seriamente nell’apprestarsi a metter mano alla riqualificazione di aree e immobili nelle città.