L’EDILIZIA? SI RILANCIA CON LA MANIFATTURA

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su VeneziePost – 11 Dicembre 2014]

Sono di oggi i dati che indicano il continuo deterioramento del comparto dell’edilizia in Veneto, alimentando il dibattito su come riattivare il mercato immobiliare. Una discussione che contiene al suo interno due grandi mainstream: la qualità paga sempre, ma cosa intendiamo per qualità? La ricerca dell’elemento di distinvità a ogni costo, in termini di materiali e soluzioni avanzate, non è detto che si collochi nell’ambito dell’ottimale. L’altro elemento che torna sempre gioco in questo contesto è l’edilizia sociale, non più popolare ma sostenibile e accessibile, e la domanda che ritorna è: come faccio ad avere delle abitazioni a un prezzo più basso?

E’ almeno dal terremoto dell’Aquila che si ripete come un mantra la storia delle case a 1000 euro al metro quadro. L’esperienza del low cost nell’edilizia, almeno in Italia, appare complessivamente abbastanza noiosa. È evidente che gran parte del ‘low cost’ è stato creato agendo su logiche fondiarie ovvero sul valore dell’area; in alcuni casi edificando in ambiti decentrati, in altri attraverso il calmieramento dato da cessione di lotti o fabbricati di proprietà pubblica.

Per vivacizzare il mercato la questione non è tanto quella di individuare aree a basso prezzo ma ridurre sensibilmente i costi complessivi di costruzione. Da questo punto di vista è abbastanza evidente che non si tratta di ricercare tecnologie sulla frontiera dell’innovazione, quanto di muoversi verso un aumento della quota di lavoro realizzata all’interno di stabilimenti manifatturieri e ridurre quella di cantiere. Con un ricorso maggiore alla prefabbricazione. Come spesso accade quando non si sa da che parte affrontare un problema si tende a chiamare in causa fattori culturali: «le famiglie devono cambiare mentalità, i progettisti devono cambiare metodo, i costruttori devono riorganizzarsi». Questa prospettiva difficilmente porta da qualche parte. Se si tratta di introdurre un nuovo paradigma questo non può che avvenire attraverso una vera e propria competizione. E il concetto di competizione ruota intorno agli attori, alle loro visioni e interessi. La domanda dunque è: chi sono gli attori?

Se diamo per buono l’assunto che i costi di costruzione si riducono attraverso un ribilanciamento tra fasi di stabilimento e fasi di cantiere allora dobbiamo concludere che l’attore primo di questa competizione è da ricercarsi nell’ambito della manifattura, mentre i costruttori dovranno essere in grado di interpretare e trarre vantaggio da questo nuovo paradigma. Un processo di questo tipo darebbe sicuramente un senso maggiormente tangibile al concetto di filiera dell’abitare, individuando concretamente in questo binomio – manifattura e costruttori – il motore per agire nell’ambito del sustainable living. Per gli architetti ci sono ampi margini di sperimentazione di un linguaggio moderno puntando sulla semplificazione nella scelta dei materiali.

Da questo punto di vista, per quanto possa far arricciare il naso a qualcuno, la libreria Billy di Ikea costituisce un esempio paradigmatico per un ragionamento che vuole rivolgersi a un mercato accessibile ad una platea allargata dei consumatori. In ultima considerazione la sfida che il binomio – manifattura e costruttori – dovrà affrontare sarà quella di costruire fabbricati residenziali ambientalmente efficienti a basso costo e che prevedono il riciclo dei moduli abitativi per convertirli a nuovi usi. Non si tratta certamente di edificare case green di lusso, come nel caso del quartiere Le Albere di Trento, che rimangono inaccessibili ai più, bensì di costruire case sostenibili da piu punti di vista – ambientale, sociale ed economico – e la cui collocazione sul mercato incontrerà le esigenze di un pubblico più vasto.

CITTÀ, IMMOBILI E UN MERCATO CHE NON SA COMUNICARE

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su VeneziePost – 12 Novembre 2014]

Tra il 1961 e il 2001 la popolazione dei 5 capoluoghi più popolosi del Veneto (Venezia, Verona, Padova, Vicenza e Treviso) è rimasta sostanzialmente stabile mentre quella delle loro prime cinture è cresciuta dell’85%. Ancora, nel decennio tra il 2001 e il 2011 le prime cinture sono cresciute di circa il 15% mentre i capoluoghi solo del 3,5%. Fin qui nulla di nuovo: il fenomeno è stato anche troppo descritto e interpretato. Il problema è che quasi sempre la lettura si è limitata a ipotizzare una sorta di attrazione dell’ambiente (pseudo)rurale: «le gente vuole vivere nelle case a schiera in mezzo alla campagna. Ma se davvero la città attrae meno, come mai la popolazione si è accalcata intorno ai suoi confini? Con tutti i distinguo del caso, l’immagine mi ricorda le scene dei profughi ai valichi di frontiera. Davvero la gente non vuole vivere in città?

Se si va a vedere cosa è successo nelle province venete in cui non c’è stata esplosione demografica (Belluno e Rovigo) tra il 1962 e il 2001 la popolazione dei capoluoghi è cresciuta mentre quella delle loro cinture è calata; nel decennio successivo le cinture sono cresciute ma comunque meno dei capoluoghi. Si potrebbe dire che Belluno e Rovigo sono più piccole degli altri capoluoghi e che per questo sono state meno repulsive. Falso! La stessa dinamica di crescita è accaduta anche nei suoi centri medi: ad esempio Conegliano e Castelfranco, simili per dimensione a Belluno e Rovigo. Anche qui la popolazione si è addensata intorno ai comuni di cintura, replicando a scala ridotta quanto accaduto nei centri maggiori. Tutto questo dovrebbe suggerirci una conclusione: la gente è attratta dalla città e se non ci vive è (anche) perché a parità di costo non riesce a trovare un’offerta rispondente alle sue esigenze, ma cerca di restarvi il più vicino possibile perché nelle città più grandi si trovano i servizi che non si hanno nel resto del territorio. Alla fin fine non è altro che quello che l’Europa intende quando parla di città come motori dello sviluppo. Ciò dovrebbe far riflettere per il futuro. Se si accetta l’idea che il mercato non è così inesorabilmente attratto dalle villettopoli, forse, per la generazione che cercherà casa oggi e nei prossimi anni, la città è il luogo in cui desiderare di vivere. A condizione di potervi accedere a un costo che non può essere quello riservato al mercato ricco. Ora, siamo sicuri che anche nell’offerta immobiliare non ci sia un problema di incontro domanda-offerta? Si dirà: «è ovvio che c’è, le case non si vendono». Non è di questo che parlo. La domanda è: siamo sicuri che i contenuti dell’offerta vengano sempre considerati dai potenziali acquirenti come dei contenuti rilevanti e non piuttosto dei frills (degli sfronzoli) che aumentano il costo più di quanto non aumentino il valore? Per capirci, in un quartiere tutt’altro che “affluent” di un capoluogo veneto stanno costruendo un complesso residenziale con piscina, affaccio diretto su un vecchio e grande complesso di edilizia popolare e con la piscina comunale a 500 metri. In bocca al lupo ovviamente per l’iniziativa, ma, in generale, non è certo aumentando i costi di gestione degli immobili che posso incentivare l’acquisto.

Secondo esempio. Gli annunci immobiliari continuano a traboccare di inserzioni con foto invisibili e messaggi del tipo “travi a vista”, fregi in gesso sul frontale e giardino privato: poi magari l’appartamento è di 50 metri quadri e il giardino è più piccolo dell’appartamento. Terzo esempio. La ricerca spinta di certificazioni costa in termini di progettazione, realizzazione e manutenzione. C’è il rischio che nella rincorsa dell’ottimo (la casa iper-efficiente) si introducono fattori di costo che respingano ancora una volta anziché attrarre nelle città. Su questi punti varrebbe la pena riflettere seriamente nell’apprestarsi a metter mano alla riqualificazione di aree e immobili nelle città.