A crescere è la medio-grande impresa. Soprattutto in Emilia, Veneto e Toscana

[di Sergio Maset e Michele Polesana

L’articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2019 su VeneziePost]

Le ragioni per occuparsi di manifattura e analizzarne le tendenze in atto sono in Italia, e nel Nord Est in particolare, molteplici. Consideriamone tre. Innanzitutto, è sempre bene ricordarlo, l’Italia rappresenta la seconda manifattura d’Europa per valore aggiunto (263 miliardi di euro), dietro la Germania (705 miliardi di euro) e davanti alla Francia (232 miliardi di euro; 2018, Eurostat). Seconda ragione è il peso che questo settore riveste in termini di incidenza del valore aggiunto manifatturiero sul totale del valore aggiunto in regioni come il Veneto, l’Emilia Romagna (24% in entrambe), le Marche (23%), il Piemonte (22%), il Friuli Venezia Giulia (21%) e la Lombardia (20%, ma 28% escludendo la città metropolitana di Milano; 2016, Istat). La terza è data dal fatto che l’export di prodotti materiali vale l’82% delle esportazioni complessive di beni e servizi. Il turismo, settore assai rilevante della nostra economia, vale oggi il 7% dell’insieme di beni e servizi esportati (2017, Banca d’Italia) di cui una quota parte è comunque turismo d’affari, a sua volta generato proprio dall’interesse commerciale di chi in Italia compra o vende all’interno delle filiere manifatturiere. Andrebbe poi considerato un quarto ordine di ragionamento, che riguarda la capacità del settore manifatturiero di attivare una serie di servizi necessari allo svolgimento dell’attività produttiva ma che dipendono da questa – a supporto dell’esportazione, dei trasporti, del marketing e della pubblicità, dello sviluppo e ricerca sui prodotti – valutandone l’effetto indiretto, che ne aumenterebbe ulteriormente la considerazione in termini di peso sul PIL. Ma per questo momento è sufficiente considerare quanto sopra detto.

È allora una buona notizia che nel giro del quinquennio 2012-2016 l’occupazione manifatturiera di alcune province del Centro Nord[1] sia tornata a crescere. Si tratta ovviamente di tendenze di breve periodo, ma che si può provare a leggere in comparazione a quanto avvenuto nei decenni passati considerandone anche la geografia. Nel periodo 2001-2011, infatti, il numero di addetti manifatturieri era calato in tutte le province dell’Italia centro-settentrionale. Sono invece ora 13, su 64, le province in cui cresce l’occupazione manifatturiera: Bolzano, Parma, Lodi, Cremona, Belluno e Prato con un tasso superiore al 3%; ad un tasso intermedio (tra l’1% e il 3%) Firenze, Gorizia, Arezzo e Vicenza; ad un tasso più contenuto (1% o meno) Piacenza, Grosseto e La Spezia. C’è poi un dato che differenzia ancor più il ciclo 2012-2016, per quanto di breve periodo, dal precedente: mentre tra 2001 e 2011 calava in tutte[2] le province del Centro Nord il numero di addetti sia della micro-piccola manifattura (0-49 addetti) che della medio-grande (50 addetti e più), nell’ultimo quinquennio si assiste a dinamiche differenziate nelle due macro-classi dimensionali, con ben 34 province in cui cresce il numero di addetti delle industrie manifatturiere medio grandi, mentre soltanto in 4 province cresce la piccola. Una crescita, quella delle unità produttive medio-grandi, che avviene soprattutto nelle regioni di Nord Est, dove si registra nello stesso periodo anche un consistente aumento del valore aggiunto del manifatturiero, e in Toscana. Non si tratta evidentemente di una dinamica spiegabile con la volatilità di province a bassa presenza manifatturiera. Infatti anche considerando le prime 23 province, quelle con almeno 20.000 addetti nella medio-grande manifattura, risulta in crescita il numero di addetti della medio-grande impresa in 11, circa la metà di esse. Va invece osservato il carattere regionale di questi fenomeni. In Veneto ed Emilia Romagna le province in cui cresce il numero di addetti della media grande manifattura sono più di tre quarti: in Veneto tutte, con eccezione di Rovigo e con Treviso sostanzialmente stabile con lieve segno negativo; in Emilia Romagna tutte, con eccezione di Ferrara e con Reggio Emilia sostanzialmente stabile con lieve segno negativo. In Lombardia la crescita degli addetti del manifatturiero medio-grande riguarda invece solo 4 province su 12, di cui solo 2 province su 8 oltre i 20.000 addetti. Analogamente in Piemonte, dove a crescere sono solo 3 su 8 province. Una situazione, quella della medio-grande manifattura lombarda e piemontese, su cui pesano in particolare una contrazione della provincia di Torino e le difficoltà di alcuni comparti provinciali tradizionali (es. tessile-confezionamento di Bergamo, Mantova e Cuneo e chimica-farmaceutica di Milano e Monza). Tra i settori che contribuiscono maggiormente ad una variazione positiva dell’occupazione nella medio-grande manifattura regionale figurano invece il tessile-confezionamento di Milano e la meccanica avanzato di Bergamo per la Lombardia, l’industria alimentare di Cuneo e la chimica di Alessandria per il Piemonte. La geografia emergente restituisce ancora una volta l’immagine di un Piemonte fortemente de-industrializzato dal punto di vista manifatturiero e di un asse padano più spostato in direzione sud (Emilia-Romagna) e verso Est a cui si aggiunge la continua espansione dell’industria della provincia di Bolzano e alcuni segnali di ripresa della Toscana.

Una buona notizia, dunque, tantopiù che la ripresa dell’occupazione manifatturiera avviene in controtendenza rispetto ai timori generati dalla salienza mediatica del tema della robotizzazione, atteso come fattore di declino tout court dell’occupazione nella manifattura e invece fattore di crescita da leggersi contestualmente ai processi di reshoring: produzione che rientra in Italia con più intensità di capitale e maggiore impiego di profili professionali elevati.

Ma quali sono le possibili implicazioni della crescita della medio-grande manifattura? Ovvero perché, al di là delle constatazioni più ovvie, è una buona notizia questa inversione di tendenza? Torniamo a osservare l’andamento del numero di addetti manifatturieri nelle regioni dell’Italia centro settentrionale. Gli anni Settanta sono quelli della nascita della cosiddetta Terza Italia, e vedono una crescita degli addetti manifatturieri che riguarda soprattutto la micro e la piccola impresa, spinta anche da processi di esternalizzazione della grande industria. Gli anni Ottanta portano a compimento il processo di riorganizzazione della produzione in chiave distrettuale, con una crescita degli addetti che interessa unicamente le micro e piccole imprese (ad eccezione di Piemonte, Liguria e Toscana, in cui gli addetti delle micro-piccole imprese manifatturiere calano), ed una crescita dell’occupazione manifatturiera complessiva soltanto in Veneto. Gli anni Novanta, con l’imporsi della globalizzazione, segnano un’inversione di tendenza: cala il numero di addetti della micro e piccola impresa in tutte le regioni tranne Friuli Venezia Giulia, Umbria e Marche, mentre torna a crescere la media e grande impresa in Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Marche, con l’effetto che solo in esse cresce il numero complessivo di addetti manifatturieri[3]. Nel decennio 2001-2011 sulle trasformazioni indotte dai fenomeni globali si innestano le due ondate di crisi coincidenti con i periodi 2008-2009 e 2012-2013, con l’effetto di una contrazione generalizzata dell’occupazione manifatturiera, che cresce soltanto in Trentino Alto Adige e in Toscana[4].

Una crescita occupazionale ad oggi di fatto confinata al solo comparto della medio-grande manifattura sembra rispondere a logiche analoghe a quelle che avevano iniziato ad affacciarsi negli anni Novanta: le sfide imposte dalla globalizzazione e dalla competizione internazionale richiedono di essere dimensionalmente strutturati per innovare, internazionalizzarsi, esportare.

E’ la fine della piccola impresa manifatturiera dunque? A fronte di una riduzione tendenziale dei suoi addetti che procede dagli anni ’90 sembrerebbe difficile affermare il contrario. Tuttavia, non si può trascurare il fatto che dietro alla contrazione storica della piccola impresa che si osserva nelle statistiche ci stia anche il superamento di un modello produttivo che viveva in stretta relazione con la grande industria in un rapporto di esternalizzazione di manodopera e contoterzismo messo in crisi dall’automazione prima e dalla globalizzazione poi, e ora dalla digitalizzazione. All’interno delle statistiche territoriali si fatica a scindere la coda delle micro e piccole imprese manifatturiere “pre-digitali” dalle dinamiche delle imprese manifatturiere “post-digitali” che pur ci sono e nelle quali le figure di chimici, ingegneri dei materiali, ingegneri elettronici e informatici sono parte significativa della manodopera dell’impresa. Per queste ultime è ipotizzabile una crescita ulteriore proprio in relazione alla crescita della media grande impresa. Vi è infatti un importante corollario. Le medie e grandi imprese in un contesto fertile dal punto di vista finanziario e formativo sono in grado di stimolare maggiormente la crescita delle competenze dei lavoratori, diffondere innovazione, intercettare domande complesse. Ovvero domande che proprio in virtù di questa loro complessità hanno un valore anche di mercato, che stimolano l’imprenditorialità, l’ingegno, e premiano economicamente la creatività . In contesti produttivi in cui ci sono forza lavoro dotata di competenze e capacità, diffusa cultura del fare impresa e un sistema di sostegno finanziario allo start up, la media e grande industria genera interesse, con la sua domanda, alla creazione di nuove imprese. Si tratta di piccola impresa che non fornisce servizio alla popolazione o, in modo convenzionale e adempimentale, alle imprese, ma si spinge nell’innovazione di prodotti e di processi costruendo una propria offerta. Ne discende uno scenario di policy quanto mai desiderabile. In un contesto di popolazione stagnante, in cui i consumi interni difficilmente possono dilatarsi oltre modo per quanto sostenuti e incentivati, creare nuova impresa e occupazione all’interno di filiere guidate dall’esportazione in settori ad alta innovazione è una strategia di buon senso.

La ripresa degli addetti attivi nella grande e media impresa, unitamente alla crescita del valore aggiunto e delle esportazioni, sono dunque segnali positivi e ove hanno luogo costituiscono un concreto punto di partenza e di appoggio su cui ricostruire una promessa di non marginalizzazione, di non perifericità, di protagonismo per le giovani generazioni. Perciò, a fronte di sfide complesse, interpretate e affrontate dagli attori più strutturati del sistema industriale, si creano realmente e concretamente gli spazi di impiego, anche con un respiro internazionale, per nuove generazioni di collaboratori e opportunità per nuovi imprenditori.

Figura 1. Tasso di variazione provinciale 2012-2016 degli addetti alla manifattura nelle unità locali con 50 addetti e più

Fonte: elaborazione su dati Istat [5]

Tabella 1. Tasso di variazione % addetti alla manifattura per periodo e classe dimensionale[6]

Tabella 2. Addetti alla manifattura per classe dimensionale – 2016

[1] Sono state incluse nell’analisi le seguenti regioni: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche.

[2] Con la sola eccezione di Rimini.

[3] Feltrin P., Maset S. (2012), Le onde lunghe dello sviluppo territoriale del Nord, in Perulli P. (a cura di), Nord. Una città-regione globale, Il Mulino, Bologna

[4] Maset S. (2014), Opportunità e resistenze nei nuovi contesti economici e produttivi, in Quaderni della Fondazione Francesco Fabbri, 2

[5] Tra 2012 e 2016 il numero di addetti della medio-grande manifattura delle province di Treviso (-0,02%) e Reggio-Emilia (-0,4%) è tecnicamente negativo ma sostanzialmente stabile.

[6] Per coerenza con la mappa (e i dati riportati sopra) le variazioni nei periodi 2001-2011 e 2012-2016 comprendono una redistribuzione stimata degli addetti interinali (figura introdotta nel 1997). Analogamente, nella tabella successiva, i dati 2001, 2011 e 2016.

Che cosa rende attrattiva una citta? I dilemmi contemporanei per il Veneto policentrico

[di Sergio Maset]

Le singolarità – siano esse uomini o aziende straordinarie – contano eccome. Tuttavia, la sostenibilità di una società non si misura nel grado di successo di pochi eccellenti quanto nella sua capacità di trasformare i buoni esempi in opportunità e queste in occasioni e strumenti di crescita diffusa. Per questo la relazione tra sistema produttivo, istituzioni, scuole e famiglie va costruita e alimentata. Una città può dirsi tale, a prescindere dalla sua effettiva dimensione, se riesce ad essere il luogo in cui questa consapevole relazione viene rinnovata e si traduce in rappresentanza.

Dopo quasi mezzo secolo di fuga dalle città più grandi, per la prima volta negli ultimi anni assistiamo ad una loro rinnovata crescita demografica. Si può provare a comprenderne le ragioni considerando l’effetto combinato di una serie di fenomeni di medio e lungo periodo. Il primo è dato dal fatto che le città, grazie a decenni di normative e investimenti sui motori delle auto, sul rinnovo degli impianti di riscaldamento, sulle emissioni industriali e, non da ultimo, attraverso lo spostamento al di fuori delle città dell’industria pesante, oggi non sono più le camere a gas che erano sino a qualche decennio fa. Il secondo fenomeno riguarda il mercato immobiliare che a fronte di un rallentamento della spinta demografica e con il mondo del terziario in profonda trasformazione ha visto abbassarsi le rendite e dunque i prezzi di affitti e vendite. Insomma, dopo una lunga fase in cui le città erano appannaggio di benestanti, banche e assicurazioni, il mercato torna ad essere appetibile per un ceto medio un po piu giovane e per negozi nuovamente a dimensione di vicinato. Considerato che in molte città si pone la necessità di metter mano a progetti di rinnovamento urbano (dai padiglioni fieristici alle caserme passando per mercati generali e fabbriche abbandonate) c’è la possibilità di sostenere ulteriormente una crescita demografica delle città con politiche abitative che coniughino qualità, centralità e disponibilità del portafoglio delle giovani famiglie.

La parte più complessa e stimolante della faccenda sta nel fatto, e qui vengo più direttamente al Veneto, che dopo quarant’anni di crescita generalizzata della domanda di forza lavoro, nell’ultimo decennio siamo in una situazione di sostanziale stagnazione a cui si aggiunge l’invecchiamento della popolazione per cui il rapporto tra occupati e popolazione anziana continua a precipitare. La situazione è per certi versi paradossale: da un lato non possiamo più permetterci di estromettere le donne dal mercato del lavoro e dall’altro dobbiamo trovare il modo di conciliare la loro maggiore inclusione con un aumento del numero di figli per ogni famiglia. Insomma, rivoluzionare l’immagine della famiglia. Non si tratta ovviamente di una sfida solo veneta: vale anche per le altre regioni del nord, con l’eccezione del solo Trentino Alto Adige.

Con l’arresto della spinta demografica e le molteplici trasformazioni del terziario (digitalizzazione dei servizi e ecommerce in primis) i prezzi nei capoluoghi di provincia diventano più accessibili e la popolazione riprende a concentrarsi nella città. Ma se ciò vale per i capoluoghi, che continuano localmente a svolgere il loro ruolo di città – in Veneto persino Belluno e Rovigo sono cresciuti nell’ultimo decennio – la sfida appare del tutto aperta per le piccole e medie cittadine, tra i 20 e i 40 mila abitanti. Che cosa può rendere attrattiva una di queste città? Ogni città, grande o piccola, che aspiri a ricoprire fattivamente questo ruolo, deve interrogarsi su come perseguire 3 obiettivi. Prima di tutto creare condizioni durature di espansione economica. Va rifiutata la retorica della decrescita felice mentre sono da perseguire forme sostenibili e responsabili di espansione, di crescita economica. Il secondo obiettivo è quello di inclusione che si traduce nella capacità di impiegare efficacemente le risorse umane di un dato territorio, donne e giovani in primis. Il terzo obiettivo è quello di conciliazione che significa rispondere al bisogno delle persone di vivere al meglio la pluralità di dimensioni della loro esistenza: conciliare dunque cura famigliare, impegno lavorativo, partecipazione sociale, ricreazione, cura del proprio benessere fisico.

Provando a scendere dunque nell’esperienza di analisi di Vittorio Veneto, il primo obiettivo, l’espansione, richiede di prendere consapevolezza che il presente del sistema produttivo della città si caratterizza ancora per una fortissima presenza industriale: il 40% degli addetti che operano nel comune lavora nell’industria manifatturiera, con una larghissima prevalenza di grandi imprese. In generale, queste rappresentano una risorsa per tutto il sistema produttivo in quanto sono le uniche in grado di stimolare l’acquisizione di ulteriori competenze da parte dei lavoratori, di sostenere la diffusione di innovazione, la concreta nascita di startup innovative oltre ad alimentare un indotto locale di piccole imprese. Ed è con aziende di grande dimensione che la città può sperimentare concretamente forme di innovazione sociale finalizzate a realizzare una maggiore inclusione dei giovani e delle donne. Ciò deve tradursi ad esempio in una più efficace attività di orientamento scolastico per i ragazzi delle scuole medie e le loro famiglie ma anche in una rete di servizi per la prima infanzia e sostenendo forme di smart working. Un territorio si può definire lungimirante nel momento in cui riesce a valorizzare e ottimizzare le sue esperienze di valore incluse quelle maturate sul versante dei servizi sociosanitari. Trattandosi di una città che ha molto da offrire in termini di qualità degli spazi urbani, le sue concrete possibilità di crescita sono legate alla capacità di trattenere e attrarre giovani famiglie facendo leva anche sulla vicinanza del centro storico al casello autostradale e sul rilancio del collegamento ferroviario con Treviso e Venezia. Infine, una città che si rende attraente agli ospiti, ai lavoratori e ai visitatori delle sue imprese attraverso servizi e proposte di qualità per il benessere, la ristorazione e il tempo libero diventa più interessante anche per le giovani famiglie.

Contrattazione salariale e autonomia, Il Sud non ci sta

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia, Il mattino di Padova, il 2 febbraio 2019]

A un anno dal referendum veneto sull’autonomia, il dibattito si è acceso a livello nazionale portandosi sul piano del confronto Nord-Sud e facendo emergere un punto finora per nulla considerato: i meccanismi di contrattazione salariale. Le retribuzioni della pubblica amministrazione, uguali da nord a sud, sono uno strumento di livellamento reddituale del paese, che tira in alto il reddito medio nel sud e lo livella al ribasso nel nord, con una forzata indifferenza ai divari regionali del prodotto interno lordo. Domanda: può una seria riforma autonomista non affrontare il tema della contrattazione regionale? La risposta è negativa perché la spesa pubblica corrente è costituita in larga parte da retribuzioni. Inoltre, l’assenza di omogeneità tra retribuzioni nel pubblico e nel privato pone a mio avviso una questione di equità, tra comparti diversi in una stessa regione, e tra regioni diverse all’interno del comparto pubblico. Il nodo vero dunque è il seguente: è disposto il meridione a mettere in discussione questo meccanismo? A giudicare dalle risposte del mondo industriale meridionale, la risposta è sinora negativa. Tuttavia, e qui sta il punto, non si vedono nemmeno le proposte delle rappresentanze sindacali del nord.

Per venire al Veneto, qui più che in Lombardia e in Emilia Romagna, si respira la frattura tra privato e pubblico impiego. Il privato è l’icona della produttività, contrapposto alla retorica del pubblico, sotto sotto sempre indicato, ahimè, come burocratico, inefficiente e statalista. A 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale, primo vero momento unificante dell’Italia, in Veneto le istituzioni pubbliche sono ancora vissute come corpi esterni, borbonici o lombardi. Ecco dunque un nodo problematico nel percorso di riforma autonomista: intervenire su un qualcosa, l’assetto di competenze nella pubblica amministrazione, di cui non si è costruito un interessa della società veneta. Ben diversa è la situazione nel meridione. Posto su questo piano il confronto, la palla torna alla rappresentanza del nord e del Veneto: o si è in grado di costruire un consenso politico per discutere nel merito dei cavilli che spostano risorse (contrattazione decentrata, allocazione del tfr, minimi salariali, ecc), oppure il percorso rischia di condannarsi all’irrilevanza. Perché questo prosegua bisogna partire dal riconoscere che abbiamo bisogno di migliorare le istituzioni e non di meno istituzioni. A fronte di una maggiore complessità, basti pensare alle sfide degli equilibri demografici, della denatalità, della gestione delle risorse energetiche e naturali, abbiamo bisogno di esprimere crescente qualità di gestione politica e amministrativa nella dimensione dell’agire collettivo. E un primo urgente terreno su cui investire è quello dell’istruzione: dalla scuola dell’infanzia all’università, ridando alle istituzioni scolastiche la dignità e le risorse che servono: certamente con una diversa distribuzione delle risorse e non con altra spesa in deficit.

LA DOMOTICA È ‘FUTURO’, ‘INTELLIGENZA’, INNOVAZIONE’

Edilportale, 16 gennaio 2019

[A cura di Sergio Maset e Michele Polesana

Sondaggio Edilportale e Idea Tolomeo: i sistemi domotici possono migliorare l’autonomia di anziani e disabili ma occorre sviluppare la cultura.]

Uno dei prodotti mainstream di questo Natale 2018 è stato Amazon Echo, un dispositivo che con il suo alter ego Alexa porta nelle case l’intelligenza artificiale in una forma snella ed economicamente accessibile. E’ interessante osservare come il prodotto, così come il suo analogo Google Home, è stato posto infatti sul mercato contestualmente ad interruttori wireless offerti a prezzi nell’ordine di poche decine di euro. Non si tratta più dunque di domandarsi quando l’intelligenza artificiale sarà accessibile alla stragrande maggioranza delle famiglie, ma in che modo è concretamente possibile utilizzarla per semplificare la vita delle persone. È proprio su questi aspetti che si è concentrato un sondaggio on -line promosso da Edilportale in collaborazione con IDEA TOLOMEO[1].

Come cambia la domanda di domotica da parte dei clienti finali?

La prima parte del sondaggio[2] è stata dedicata ad una valutazione sulla domanda attuale e futura di sistemi domotici. Rispetto a sei diversi ambiti di applicazione sottoposti all’attenzione degli intervistati, è stata ritenuta molto o abbastanza elevata la domanda attuale per quattro di essi: la rilevazione e segnalazione di intrusioni (88%), il controllo dell’ambiente domestico (73%), l’ausilio alla mobilità e vita quotidiana per persone con disabilità e anziane (69%) e la prevenzione di eventi accidentali (67%). Non superano invece il 50% il controllo degli elettrodomestici (47%) e la segnalazione di incidenti domestici (41%). Emerge dunque una valutazione di prevalenza della domanda sulla dimensione della security (rilevazione e segnalazione intrusioni) prima ancora che della safety (prevenzione eventi e segnalazione incidenti).

Volgendo lo sguardo al futuro prossimo, la maggioranza degli intervistati si aspetta che cresca molto o abbastanza il ricorso alla domotica in tutti questi ambiti. L’attesa è di forte crescita di domanda per applicazioni funzionali al controllo dell’ambiente domestico, alla rilevazione e segnalazione di intrusioni e per l’ausilio alla mobilità e vita quotidiana per persone con disabilità e anziane.

Che cosa rappresenta la domotica per gli operatori?

Per ciascuno di questi ambiti è stato quindi chiesto agli intervistati quale fosse, tra alcuni aggettivi proposti, quello che meglio lo rappresentasse. Risultano essere due, in particolare, i termini maggiormente ricorrenti: “utile”, da un lato, e “rassicurante” dall’altro. Ecco dunque che l’aggettivo “utile” prevale per il controllo degli elettrodomestici (52%), l’ausilio alla mobilità e vita quotidiana per persone con disabilità e anziane (50%) e il controllo dell’ambiente domestico (39%). L’aggettivo “rassicurante” è invece più frequentemente utilizzato in relazione alla rilevazione e segnalazione di intrusioni (49%), alla prevenzione di eventi accidentali (45%) e alla segnalazione di incidenti domestici (44%).

È possibile approfondire l’analisi mettendo in evidenza quali termini si associno in modo più caratteristico, rispetto alla media complessiva, a ciascuno di questi ambiti. L’aggettivo “rassicurante” caratterizza specificatamente la rilevazione e segnalazione di intrusioni e la prevenzione di eventi accidentali (vicine tra loro), ma anche la segnalazione di incidenti domestici come le cadute. È possibile apprezzare inoltre come il termine “intelligente” si associ in modo più specifico al controllo degli elettrodomestici e dell’ambiente domestico. I termini “utile” e “gratificante” caratterizzano maggiormente l’ausilio alla mobilità e vita quotidiana per persone con disabilità e anziane.

Il grafico va letto guardando alle linee che congiungono i punti con l’origine degli assi (la coordinata 0,0). È l’angolo tra queste linee a determinare l’intensità del legame (della corrispondenza) tra ambiti e aggettivi: un piccolo angolo indica una forte corrispondenza.

È stato poi chiesto agli intervistati di associare liberamente un termine che si accompagni a “domotica”. Il 29% delle risposte ha riguardato elementi di immagine, con termini come “futuro”, “intelligenza”, “innovazione”; il 27% modalità e strumenti di applicazione come “automazione”, “controllo”, “connessione”; il 26% attese di risultato come “comfort”, “risparmio” “semplificazione”. Per un altro 4% la domotica richiama un aggettivo positivo (es. “smart”, “interessante”) e per l’8% un attributo negativo (es. “costo”, “complessità”). Nella sostanziale tripartizione delle risposte si coglie l’intensità delle attese intorno al fenomeno della diffusione dell’intelligenza artificiale nelle abitazioni: un insieme di technicalities dai forti contenuti sociali e simbolici.

In quali ambiti possiamo attenderci i maggiori risultati?

Il sondaggio ha dunque indagato, secondo la percezione degli intervistati, il contributo della domotica per diversi possibili obiettivi. Considerando solo le risposte “Molto” troviamo al primo posto il contribuire a migliorare il comfort delle abitazioni; al secondo la possibilità di migliorare l’autonomia delle persone anziane e disabili, seguita dall’aumentare la sicurezza della casa e dei beni in essa custoditi.

Le attese dei consumatori nei confronti della domotica, sempre secondo gli interpellati, si concentrano su “semplificare la vita quotidiana delle persone” (37%), seguita da migliorare il comfort delle abitazioni (32%) e, secondariamente, far risparmiare le famiglie (15%).

La domotica per l’autonomia delle persone anziane e con disabilità

Migliorare l’autonomia di anziani e disabili è quindi al contempo ai primi posti come obiettivo a cui la domotica può rispondere e tuttavia ritenuto ancora poco significativo circa le attese dei consumatori finali. Eppure L’Italia è uno dei Paesi più vecchi al mondo: l’indice di vecchiaia, che misura il rapporto tra la popolazione anziana (65 anni e oltre) e la popolazione più giovane (0-14 anni), è nel 2018 pari al 168,9% ovvero, come sottolinea Istat, il secondo più elevato su scala globale dopo il Giappone (200% nel 2015). Nel prossimo futuro, il quadro di una popolazione sempre più vecchia è destinato a rafforzarsi: secondo Istat la popolazione di 65 anni e più crescerà dall’attuale 22,6% fino al 32,1% nel 2040 e al 33,3% nel 2065 (con poco meno di un decimo della popolazione oltre gli 84 anni).

Al tema dell’invecchiamento si accompagna ovviamente quello della salute e c’è un dato, tra i tanti, che colpisce. Rispetto al rischio di incidente domestico gli anziani rappresentano una delle categorie più a rischio: secondo la rilevazione condotta da Istat nel 2017, 24 anziani su mille dichiaravano di aver subito un incidente domestico nei 3 mesi precedenti l’intervista, contro un dato medio, relativo alla popolazione di tutte le età, di 14 persone su mille. Un rischio che aumenta al crescere dell’età anziana, con le cadute a rappresentare la dinamica più ricorrente, e che è maggiore per le donne, per le quali si traduce inoltre in una maggiore gravità degli infortuni e maggiori limitazioni.

Pensando dunque alle applicazioni della domotica per consentire una maggiore autonomia delle persone anziane, gli intervistati sono quasi all’unanimità (95%) molto o abbastanza concordi che esse possano rappresentare un valido aiuto, con un 48% molto concorde. L’84% è molto o abbastanza concorde nel ritenerle tecnologicamente avanzate, il 61% nel ritenerle semplici da utilizzare. Non vi è invece accordo nel ritenerle accessibili da un punto di vista economico (solo il 35% è molto o abbastanza d’accordo) e conosciute da anziani e disabili (11%), con un 32% molto in disaccordo con questa affermazione.

Congruentemente con quest’ultimo punto, il 70% degli intervistati ritiene che per aumentare la diffusione della domotica in ausilio a persone anziane e disabili occorra soprattutto lavorare sulla domanda da parte dei consumatori, ad esempio facendo conoscere più approfonditamente i bisogni a cui può dare risposta la domotica.

La domotica: non rende più giovani …ma può aiutare ad invecchiare meglio.

Sembra dunque emergere dalle risposte degli intervistati uno spazio di mercato in cui i sistemi domotici hanno un elevato potenziale in termini di capacità di incidere positivamente sull’autonomia delle persone anziane e disabili, ma basse aspettative da parte dei consumatori finali. È fondamentale dunque lavorare tanto sui consumatori che sull’integrazione con la rete dei servizio sociali e sanitari territoriali, sviluppando cultura, politiche pubbliche e prassi amministrative e gestionali. L’Unione Europea stessa ha dato attenzione al tema della salute degli anziani e delle persone con disabilità facendone uno degli ambiti cui è dedicato Horizon 2020, e confermandolo anche per il periodo 2021-2027. Le soluzioni ICT non rappresentano certamente l’unica risorsa a cui fare riferimento nel ricercare delle soluzioni per la cura della fascia di popolazione in età più matura, ma come ricorda la European Innovation Partnership sull’invecchiamento attivo e in buona salute esse possono aiutare le persone anziane ad avere uno stile di vita indipendente ed estendere gli anni di vita autonoma.


[1] Idea è una società che opera nel campo della ricerca sociale ed economica e fornisce consulenza ad aziende, associazioni, istituzioni ed enti locali, per la valutazione e il monitoraggio di politiche pubbliche, l’analisi di impatto economico e sociale e indagini di mercato.

[2] Il sondaggio si è basato su una rilevazione on line, tramite la piattaforma EDILPORTALE. Hanno risposto 138 operatori e professionisti, tra cui ingegneri (20%), architetti (16%), geometri (16%), periti industriali (12%) e altre tipologie di lavoratori distribuiti su tutto il territorio nazionale.

Il bue e l’asinello nella mangiatoia dei Big Data: Google, Apple, Facebook & Co.

[di Sergio Maset]

La grande finanza, spesso vista come contrapposta all’”economia reale”, non gode certo delle immediate simpatie della maggioranza della popolazione. Può suscitare dunque non poco stupore l’affermazione di Jean Pierre Mustier, ad di Unicredit, il quale quest’estate ha accusato Facebook di “scarsa eticità” nell’uso dei dati degli utenti ed ha annunciato di aver “bloccato ogni interazione con Facebook” per attività di business quali le inserzioni pubblicitarie e le campagne di marketing. Il proverbiale “bue che dà del cornuto all’asino”, direbbe l’”uomo della strada”. Ma come? Il massimo dirigente della quinta banca europea per capitalizzazione che impartisce patenti di “eticità” a Facebook, la quale a sua volta, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, non gode certo delle simpatie popolari ma pare comunque più apprezzata di qualsiasi istituzione finanziaria?

E perché questo attacco? È forse un tentativo per associare in una stessa frase “grande finanza” ed “etica”? Forse si, ma anche no. In realtà, il confronto fra Unicredit e Facebook si inserisce in un contesto in cui le grandi piattaforme web – Apple, Facebook e Google – rivaleggiano con le istituzioni finanziarie tradizionali nel “core-business” di queste ultime. Banche ed istituti finanziari rilevano costantemente enormi quantità di informazioni sul comportamento dei clienti. Ma ancora maggiore è la capacità e potenza di monitoraggio dei comportamenti e delle preferenze che mettono in campo Google, Apple e Facebook. E’ inoltre sostanziale la differenza nel tipo di informazioni a cui possono accedere questi due gruppi: mentre i primi – le banche per intendersi -possono rilevare alcuni elementi del comportamento economico e finanziario dei clienti, i secondi possono mettere in relazione il comportamento nella molteplicità di ambiti in cui ciascuno di noi si muove. In qualche modo, possono statisticamente spiegare il “perché” di certi nostri comportamenti. Tutto un altro paio di maniche. Ora, con buona pace della nostra privacy, la compenetrazione fra i due mondi (social network e finanza) è ormai totale: Facebook, ad esempio, ha ammesso di aver effettuato, con successo, un forte pressing su diversi istituti finanziari affinché condividessero le comunicazioni fra banche e clienti effettuate via Messenger.

Da queste considerazioni si possono trarre, com’è ovvio, molteplici spunti di riflessione, sul piano politico e sociale. Primo aspetto. Stiamo già ampiamente assistendo alla contrapposizione di blocchi di potere nell’enorme mercato del controllo delle informazioni e, finalmente, sta crollando la patina di amichevole leggerezza che, con una attentissima e programmata liturgia, avevano costruito intorno a sé Google, Apple, Facebook & Co. E questo per effetto della messa in discussione operata, guarda caso, da altre élite così come nell’esempio della banca. La creazione di blocchi web-finanza, in cui la parte del leone la fanno le grandi piattaforme web, mentre banche ed istituti finanziari si vedono “costretti” ad allearsi ad una piattaforma o ad un’altra, rappresenta uno scenario affascinante e certo non peregrino. Si tratterebbe di uno scenario in cui, in assenza di un attore economico chiaramente egemone rispetto agli altri, si genererebbe una sorta di balance of power all’interno di un mondo multipolare. In cui, fintantoché un attore non prevarrà sugli altri, si assisterà a comportamenti dei singoli attori “minori” (fra virgolette, perché stiamo parlando di grandi corporation finanziarie) vòlti a “bilanciare” e contrarrestare gli eventuali tentativi “egemonici” degli altri blocchi.

La seconda considerazione è che non è ancora maturata una sufficiente consapevolezza della natura pubblica del ruolo giocato dalle reti digitali facendo emergere ampi vuoti di rappresentanza degli interessi sia generali sia specifici, di imprese e consumatori. L’accusa di “scarsa eticità” rivolta a Facebook, fa leva su argomentazioni appunto di tipo etico, che, ai giorni nostri, assumono un significato assolutamente politico. La “politicità” dell’accusa risiede nella ricerca di consenso presso un pubblico più vasto. E risiede anche nella richiesta, pur se in nuce ed interpretabile in modi diversissimi, di una diversa regolamentazione dell’arena digitale. Estremizzando, taluni basano le loro argomentazioni sulla sovranità della protezione dei dati sensibili dell’utente; altri sulla prevalenza dell’interesse del consumatore verso una migliore e più accattivante esperienza di acquisto. Ma se non si tratta (solamente) di una guerra commerciale fra potenze economiche per il controllo di fette di mercato, e se quindi emerge la necessità di argomentare la questione sul piano etico allora siamo di fronte ad uno scenario che richiede di comprendere come si articola la platea degli interessati e di comporre e rappresentarne l’interesse.

Insomma, bisogna essere consapevoli che le decisioni in materia di uso delle informazioni vanno ad incidere su aspetti fondamentali nella vita di ciascuno di noi, tanto quanto lo è, ad esempio, decidere la quantità di risorse da destinare alla sanità pubblica o all’istruzione. Dunque, parliamo di un’arena nella quale, per poter influire, bisogna anche raccogliere il consenso.

Il Veneto, lontano dalla programmazione, affamato di innovazione

[di Sergio Maset]

Quando 25 anni fa quotidiani, riviste e pubblicazioni di settore mettevano in risalto il ruolo dell’economia distrettuale per l’impetuosa crescita socio-economica del Veneto e il suo emergere in posizione di primo piano nel panorama economico italiano, lettori più e meno addentro alla sfera economica “scoprivano” non solo l’esistenza, sul territorio veneto, di impianti produttivi appartenenti a grandi marchi leader a livello mondiale, ma anche che quei marchi erano di proprietà veneta: Tecnica (fondata a Montebelluna nel 1960), De’ Longhi (Treviso, 1902), Veneta Cucine (Biancade, 1967), Luxottica (Agordo, 1961) per citarne solo alcune. Ma molti di più sono infatti i brand noti già allora a livello internazionale.

La scoperta di questa dote di capacità produttiva e appeal a livello mondiale ha rappresentato forse, anche per mano di chi ne ha proprio visto l’utilità in questo senso, una chiave di volta nella narrazione del Veneto, da territorio rurale a territorio paradigma del modello distrettuale, fortemente orientato all’export. Si va dal racconto di Giorgio Lago alle provocazioni di Gian Antonio Stella, dribblando tra le polemiche televisive con Michele Santoro. Questo è stato sicuramente il portato maggiore di quella lettura sociologica del sistema produttivo veneto: sancire la discontinuità tra la rappresentazione di un Veneto da cui si fuggiva a quello di un Veneto di cui essere orgogliosi.

Ma quale altro ciclo si è aperto in quel momento? Negli anni in cui il Veneto ascoltava la narrazione del suo essere terra di marchi famosi, e non solo di lavoro, si completava l’apertura dei paesi dell’Europa orientale e la delocalizzazione diventava fenomeno diffuso, un vero e proprio modello di organizzazione produttiva. Se dunque la narrazione interviene a sancire il passato, allora, ciò di cui si parlerà oggi è la conclusione del ciclo di delocalizzazione produttiva quale strategia di vantaggio di costo. Oggi ciò che va in scena è il riconoscimento che altre strategie stanno pagando e che per queste contano davvero le competenze e la preparazione dei collaboratori e la capacità dell’impresa di governare la sua complessità. Dunque, innovazione e tecnologia, ma anche responsabilità e buon gusto.

Se negli anni ’90 la scoperta del Veneto come fucina di grandi marchi ha costituito un salto di coscienza collettiva rispetto ad un senso comune intriso di rievocazione nostalgica e dolorosa, viene da chiedersi cosa andare a ricercare nel rapporto tra imprese e società di oggi, quale scostamento dai luoghi comuni possa spingere ad un altro salto. Nella misura in cui le parole chiave stanno in tecnologia, innovazione, responsabilità e buon gusto, allora, probabilmente, bisogna ricercare la capacità di questo ecosistema di produrre cultura e sapere: riconoscendola e rinforzandola. Ad esempio, dimostrando che non è per nulla vero che i giovani veneti, per trovare un profilo professionale soddisfacente, devono andare all’estero; che non è vero che le aziende venete non fanno innovazione; che non è vero che la scuola non fornisce i profili utili alle aziende e che le risorse umane di eccellenza vanno solo nelle città.

In questo ragionamento l’area pedemontana costituisce un contesto emblematico: lontano dal corridoio urbano della A4, ha vissuto in pieno sia il ciclo dell’industrializzazione diffusa che la fase della delocalizzazione. Oggi si trova a vivere la sfida tecnologica senza avere la fascinazione delle città, in un momento in cui i grandi centri non sono più emblema del grigio ma diventano laboratorio di sostenibilità e vi si innestano imprese e lavoro. Si potrebbe dire che la locomotiva – usando una immagine cara alla retorica distrettuale – adesso non sta più esclusivamente nella pedemontana. I riflessi di queste tendenze si possono leggere nei dati di popolazione ed occupati dai quali sembra emergere un rallentamento di questa area pedemontana rispetto al Veneto nel suo complesso.

Non si tratta però di una nuova crisi, bensì il segno tangibile di trasformazioni che ovviamente sono già in corso. Si è chiuso il ciclo narrativo delle 3 C – capannone, chiesa, campo, che in qualche modo rappresentava l’idea della evoluzione dal mondo rurale. Il nuovo ciclo è da pensarsi intorno al concetto di relazione, tra persone, idee e mercati. La rappresentazione più iconografica della pedemontana è proprio la Superstrada. Intorno ai suoi futuri caselli – entro un raggio di 20 minuti – vivono già oggi oltre 900 mila abitanti e le imprese che vi hanno sede impiegano quasi 340 mila persone. Domani, i tempi di percorrenza con cui si spostano lungo il suo asse verranno dimezzati rispetto a quelli di oggi e questo darà vita ad una geometria nuova anche del mercato del lavoro. L’icona dunque per questa aree non è un luogo, ma un servizio, per collegare persone, interessi, formazione e lavoro. La consapevolezza di questo deve servire ad accompagnare responsabilmente l’evoluzione del territorio.

UN GOVERNO PER LA RIFORMA FEDERALISTA

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova il 6 marzo 2018]

La rappresentazione geografica dei risultati di quest’ultima elezione ci restituisce una fotografia in cui il fattore davvero prevalente è il dualismo Nord-Sud, con da una parte un Nord a trazione Lega “nazionale” di Salvini – un partito che poco ricorda la Lega Nord – e dall’altra un Sud pentastellato costruito su promesse di strepitoso assistenzialismo (reddito di cittadinanza e via discorrendo). A perdere, inutile a dirlo, i due partiti più certamente nazionali (Forza Italia e il Partito Democratico), avulsi per tradizione sia da narrazioni fortemente localiste che nazionaliste.

Una lettura non convenzionale dovrebbe tuttavia suggerirci che l’affermazione dei Cinque Stelle è indebolita potenzialmente e forse irrimediabilmente dalla sua geografia. In Italia un partito del Sud costruito sulle promesse di una economia di assistenza non è credibile rispetto ad un qualsivoglia obiettivo di sviluppo del paese né, tanto meno, è sostenibile per la finanza pubblica. E lo è ancor meno di quanto lo sia un partito del Nord. Ciò è vero per una ragione molto semplice: tanto più un partito del Sud preme dal punto di vista elettorale in quanto bacino di voti, tanto più si indebolisce, perché rianima un’istanza – che diviene a quel punto separatista – del Nord. Mentre all’autonomia del Nord fa da contraltare la richiesta di perequazione a favore del Sud, richiesta finora sempre rispettata, un rinforzo delle istanze assistenzialiste del Sud genererebbe oggi una irrimediabile chiusura da parte del Nord.

L’unica reale risorsa politica che mi pare emergere in questo scenario è costituita dal processo di riforma autonomista attuato in questi ultimi mesi dalle tre regioni Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Ed è l’unica perché è quella che realisticamente può porre un limite al rischio di allargare ulteriormente il solco tra Nord e Sud, senza peraltro cadere in una retorica neo unitaria (“il noi Italiani”) costruita su di un insostenibile isolazionismo verso l’esterno, alla Trump o alla Brexit, per intenderci, che ben poco interessa alle imprese e ai lavoratori.

In questa prospettiva c’è da domandarsi se l’opzione sostenibile non sia un governo di scopo da costruirsi intorno ad un programma di attuazione del disegno autonomista regionale sulla base della piattaforma a cui sono giunte Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Tre regioni di tradizione e cultura politica ben distinta accomunate dal fatto di essere il motore economico del paese, e interessate a realizzare l’autonomia come strategia per rispondere più efficacemente ad obiettivi di competitività economica globale: da sole, è bene ricordarlo, realizzano il 55% del valore dell’export nazionale.

L’opzione alternativa tratteggia foschi scenari, in cui Governi deboli lascerebbero mano libera non tanto alle derive populiste quanto all’alta burocrazia del Paese, attribuendo di fatto a questa il ruolo di garante della salvaguardia delle sue finanze e della sua unità. Un incubo in cui la rappresentanza generale è rassegnata al governo di una tecnocrazia grigia e gattopardesca.

COLTIVARE LA PARTECIPAZIONE POLITICA LOCALE

[in TESSENDO IL FUTURO. Nuove relazioni per la città di Vittorio Veneto

a cura di Sergio Maset, PostEditori, Padova, 2018]

Le pagine che seguono traggono lo spunto da uno studio sulle caratteristiche socio-economiche della città di Vittorio Veneto, commissionato dall’amministrazione comunale della città. Lo studio ha fatto emergere una sorta di distonia tra il presente produttivo, caratterizzato da numerose realtà industriali attive e dinamiche e la narrazione che la città rende di sé, talvolta più orientata alla rievocazione nostalgica che al presente. Tuttavia, anche la comprensione del presente non basta per volgersi al futuro. Per ragionare di futuro bisogna condividere interrogativi e confrontarsi su prospettive, interessi e desideri. A costo di suonare retorico, è sempre la politica a dover tessere il futuro. Avere la possibilità di una committenza che stimola e pone domande di prospettiva è una fortuna non comune di questi tempi. Un riconoscimento va dunque alla volontà dell’amministrazione di Vittorio Veneto per aver portato avanti questo lavoro, agli uffici comunali che hanno collaborato alla sua realizzazione e a quanti con le loro riflessioni hanno arricchito i contenuti e le prospettive del volume.

Alla base del dialogo vi è il lavoro di analisi socioeconomica della città e del suo territorio, le cui principali risultanze sono riportate nel Capitolo 1. Tale analisi restituisce per Vittorio Veneto un quadro robusto nel quale delineare un percorso di crescita. L’aggettivo “robusto” viene qui utilizzato in una duplice accezione: innanzitutto robusto significa basato su dati, evidenze empiriche, tendenze reali; e questi dati – ecco qui la seconda accezione di robustezza – restituiscono un territorio caratterizzato da tutta una serie di asset strategici che possono essere fatti agire per sostenere la crescita.

In che senso, e per quale obiettivo, si ragiona di utilizzo degli asset strategici? Su questa domanda si innesta la riflessione politica in senso stretto: quali siano le condizioni per una crescita della città. Ovvero, quali siano le modalità e le logiche secondo cui una città definisce le condizioni della sua sopravvivenza e della sua crescita, in quanto organizzazione finalizzata al miglioramento della vita dei cittadini. Per ogni città, infatti, la crescita si sostanzia nel creare ai propri cittadini le condizioni per la loro sostenibilità nel tempo. Questo approccio richiede evidentemente una prospettiva temporale di medio periodo: ciò vale a dire, non solo porsi l’obiettivo di risolvere i problemi contingenti ma creare oggi le condizioni perché nel domani vi sia sostenibilità. La sostenibilità non significa invarianza: al contrario, significa evoluzione guidata dalla volontà di continuare ad “essere città”. Proviamo dunque a capire cosa intendere per crescita.

Crescere, per una città, significa prima di tutto crescere sul versante demografico. La crescita demografica è l’espressione della capacità di trasmettere prospettiva, desiderabilità, valore. Esiste, da questo punto di vista, un elemento significativo che caratterizza la città e che è ciò che determina la distinzione tra luoghi e non luoghi: la caratteristica dei luoghi, principalmente, è la non fugacità. Io divento cittadino di un luogo nel momento in cui lo vivo non transitoriamente. Essere città non è nemmeno un fatto quantitativo. Da questo punto di vista la consistenza numerica non è la caratteristica che distingue la città come luogo rispetto ai non luoghi. L’aeroporto di Venezia vede passare milioni di passeggeri ogni anno, ma non è certo una città. In questo senso la componente demografica, la cittadinanza, rileva per i luoghi in maniera completamente diversa dai transitanti – persone che fruiscono del luogo solo per un passaggio – come anche dagli utilizzatori – persone che fruiscono del luogo per lo svolgimento di una specifica funzione -, che possono essere in numero anche enormemente maggiore ma non sostanziano per sé una comunione di interessi.

Quindi la crescita significa prima di tutto crescere da un punto di vista demografico, e in particolare nelle componenti in età fertile, ovverosia le giovani famiglie. Quando un cittadino sceglie di risiedere, pur avendo ovviamente la possibilità di cambiare, compie la scelta riconoscendo una prospettiva di non transitorietà ovvero di potenziale stabilità nel tempo. L’orientamento alla sostenibilità di una città come Vittorio Veneto si misura dunque nella capacità di attrarre la componente giovane della popolazione: in questo senso, la capacità di una comunità e della sua amministrazione di fornire elementi atti a favorire il processo di autonomizzazione dai nuclei familiari di origine diviene anche, di riflesso, capacità di attrarre giovani famiglie, di incrementare la natalità, di ri-densificare la residenzialità nel centro urbano. Il tema dell’autonomia dei giovani si conferma strettamente e prioritariamente collegato alla costruzione del proprio percorso professionale lavorativo. Un primo passo necessario per l’autonomia consiste, quindi, in un’offerta lavorativa “di qualità” (ovvero, con caratteristiche di stabilità, valorizzazione del contributo individuale, possibilità di crescita) tale da stimolare la popolazione giovane a sviluppare nell’area vittoriese il proprio percorso di vita. E per questo, oltre alla presenza di un sistema di istruzione e formazione efficiente, occorre anche capacità di tessere relazioni, di ri-vivificare un tessuto di associazionismo, partecipazione che per i giovani diviene spazio di crescita e insieme arena di opportunità professionali.

Il definirsi cittadino di un luogo ha un significato che si intreccia strettamente con la dimensione territoriale nell’elaborazione politica. Quest’ultima tende generalmente ad articolarsi per ambiti tematici (industria, formazione, sanità ecc.) ed a svilupparsi verticalmente, spostando essenzialmente il livello del dibattito alla scala nazionale se non europea, secondo una logica per cui si discute dove si prendono le decisioni e dove vi sono le risorse economiche per alimentare le necessarie competenze. Tuttavia il prevalere della logica di pertinenza e competenza apre un dilemma: sulla base di quale principio si possono creare e garantire le risorse all’attività di elaborazione politica locale? Che questa abbia un suo senso pare evidente, perché se non qui e ora, allora quando e dove devono essere elaborate le scelte che riguardano il cittadino di Vittorio Veneto? Non si tratta evidentemente di un rigurgito neo-municipalista quanto di avere consapevolezza che la partecipazione politica richiede di mantenere animata la sua componente locale. Muoversi esclusivamente secondo il principio di pertinenza amplifica infatti a dismisura la distanza tra lo spazio della vita e quello dell’elaborazione e porta a circoscrivere la pratica di elaborazione politica entro circuiti limitati, indebolendo progressivamente la capacità di un territorio di generare innovazione di pensiero e agire un’efficace azione di rappresentanza.

Ne discende che il dilemma con cui dobbiamo fare i conti sta nella possibilità di trovare un equilibrio tra l’applicazione di princìpi di competenza e di pertinenza (che tendono a seguire logiche verticali), e la necessità di agire luoghi e momenti di elaborazione politica locale evitando di creare delle burocrazie aggiuntive. E tutto ciò riporta al tema di questo lavoro. Nel dialogo sulla città si affrontano i temi del rapporto tra industria e formazione, delle soluzioni per un invecchiamento attivo della popolazione, di istruzione, di infrastrutture: tutti temi che hanno una competenza finanche europea. Qui la domanda è: possiamo, per questo, permetterci che di questi temi se ne discuta solo a Bruxelles, o solo a Roma, o solo a Venezia? Certamente no: il tessuto locale per poter esprimere un’efficace rappresentanza deve riuscire a declinare in una prospettiva generale gli interessi specifici che emergono nel suo proprio ambito: che si tratti di elettrificazione della linea ferroviaria, di collegamento tra autostrada e zona industriale o di finanziamento agli istituti superiori.

Proviamo dunque a delineare i temi per una possibile agenda. Se la crescita significa innanzitutto crescita demografica nelle componenti in età fertile, ovvero giovani e famiglie, è necessario provare a interrogarsi su quali sono i fattori che rendono una città attraente. Le città hanno sempre una funzionalità frammentata, inclusiva, necessariamente conciliativa, democratica e plurale. Non può esserci un’àncora prevalente ed esclusiva che trattiene i cittadini e ne spiega la crescita. Le città con ancore funzionali prevalenti, finiscono per essere esse stesse per lungo tempo non luoghi, inserite in altre soggettività urbane: ne sono esempio Sesto San Giovanni rispetto a Milano e alla Breda, Marghera rispetto a Venezia e al Petrolchimico e, per certi versi, anche Pordenone rispetto all’Electrolux. Ma non è certamente il caso di Vittorio Veneto. Com’è allora la città che attrae? Anche se ognuno di noi può essere attratto per varie ragioni, le analisi di geografia economica e di sociologia del territorio ci dicono due cose. In prima istanza, sarà la prospettiva di occupazione a guidare l’individuazione di un’area potenziale in cui risiedere: ma sarà poi la valutazione dell’attrattività sociale di un determinato luogo a determinare la scelta di effettiva localizzazione. In altri termini: posso decidere di vivere in una certa zona del Veneto, e in un certo ambito della provincia, ma poi il fatto di scegliere un Comune piuttosto che un altro dipende dall’offerta effettiva, immobiliare, di servizi, di qualità del vivere. [1]

Va detto, e questo è un dato recentissimo, che a fronte di una tendenza che dagli anni Settanta ai primi anni Duemila ha visto una forte propensione a uscire dalle grandi città, ora la città torna ad attrarre. La crisi delle grandi città ha raggiunto il suo apice negli anni Novanta, per poi arrestarsi. In Italia la prima città a vedere l’inversione è Milano, ma si tratta di una dinamica che sta iniziando a interessare tutte le grandi città del Nord Italia. Cosa c’è dietro questa tendenza? In controluce si intravvedono varie componenti: una nuova declinazione del moto futurista verso la modernità, reinterpretato però intorno ai concetti di sostenibilità, di attenzione per il benessere fisico e culturale. Cosa sta succedendo? Succede che la città ha smesso di essere luogo grigio e anzi, diventa il laboratorio di un migliore equilibrio, di un uso più efficiente delle risorse, di una maggiore attenzione alla propria salute, alla cura del corpo, alla ricerca del bello e dell’arte. La città non è più emblema del grigio. Al contrario, è emblema del green, e della sostenibilità. È il cantiere in cui si elaborano forme di conciliazione tra ambiente, esigenze delle persone ed economia. Ed è interessante vedere che la fuga dalle città si è arrestata. Forse questi sono i primi segni dell’emergere di un nuovo ceto medio, i cui esiti si vedranno forse di qui a dieci anni. Una nuova classe che inizia a sostanziarsi ricercando intanto la residenza nella città, su una nuova base, forse più democratica, certamente più accessibile.

È indubbio che la fuga dalle città è stata in passato anche una fuga per la ricerca di una migliore qualità della vita. Vivere bene nelle città degli anni Ottanta richiedeva di essere benestanti. A parità di risorse nominali, il progressivo indebolimento economico del ceto medio ha spinto le giovani coppie a spostarsi nelle periferie e da qui nelle prime, seconde e finanche terze cinture delle città. Adesso sembrano gettarsi i semi per una nuova fase rigenerativa delle città. Si tratta di prendere atto della fine del processo di gentrification dei centri, cioè quello per cui le aree centrali delle città hanno assunto un mono profilo funzionale – solo servizi finanziari, banche, assicurazioni e boutique – e sociale, solo famiglie ad alto reddito, escludendo il ceto medio e certamente le giovani famiglie. Emergono ora nella città spazi per forme e luoghi di consumo e produzione nuovi, e per ripensare ad una residenzialità più accessibile.

Anche Vittorio Veneto potrebbe trarre vantaggio da questa prospettiva: pur non rientrando nell’ambito delle grandi città, ha avuto una dinamica molto simile ad esse: ha vissuto storicamente grandi industre al suo interno; le sue fasi di de-urbanizzazione hanno seguito i tempi delle grandi città. E come altre condivide un presente industriale molto più moderno, avanzato e internazionalizzato di quanto si tende a raccontare. Da qui dunque la sfida di raccogliere e sviluppare il senso contemporaneo dell’essere città: un luogo di restituzione, di incontro e di elaborazione.

La struttura del volume è espressione di un lavoro a più mani. Si parte dall’esposizione dell’analisi economica e sociale; segue una riflessione, curata da Giovanni Napol sulla relazione tra le componenti produttive della città e sull’interazione di questo presente industriale con il terziario professionale e di alto profilo tecnico. Segue la testimonianza di Chiara Mazzer, che vive la realtà vittoriese da imprenditrice, volta a ridare linfa alla relazione tra città e siti produttivi, non in quanto semplicemente coesistenti su uno stesso territorio, ma in quanto portatori di istanze e suggestioni per le quali è vitale trovare una conciliazione. Un altro grande tema di riflessione, sviluppato con il contributo dei presidi di tre istituti scolastici superiori, è quello del rapporto con l’istruzione e la formazione tecnica e scientifica. La questione è vista come rapporto tra tre sfere: la scuola, le famiglie (e questo significa i cittadini, che diventano anche stakeholder rispetto al sistema industriale e produttivo), e il mondo imprenditoriale. Un tema complesso, talvolta banalizzato nella retorica attuale. Il mantenimento di una adeguata vita della città e nella città, mentre l’invecchiamento della popolazione pone sotto i riflettori la necessità di ripensare ai servizi socio-sanitari, è al centro della riflessione proposta da Maurizio Castro. Il compito di leggere tra le righe degli approfondimenti e del dibattito gli stimoli concreti con cui sviluppare un’agenda programmatica della città di Vittorio Veneto è affidato nel capitolo finale a Roberto Tonon.


[1] Feltrin P., Maset S. (2012), Le onde lunghe dello sviluppo territoriale del Nord, in Perulli P. (a cura di), Nord. Una città-regione globale, Il Mulino, Bologna.

Feltrin P., Maset S., M.Zanta, (2014), La sfida della modernità negli ambienti alpini, Il Poligrafo, Padova.

Maset S., (2015) Le densità inattese. Piattaforme produttive implicite nella provincia di Treviso, Quaderni dell’Osservatorio, Osservatorio Economico e Sociale di Treviso, Treviso

DECENTRAMENTO? C’È TANTO DA FARE

[di Sergio Maset

Pubblicato nella rivista Fare Impresa – ottobre novembre 2017]

E’ sempre buona regola in particolare quando il tema è complesso, incominciare un ragionamento mettendo ordine tra i termini e così faccio ora richiamando intanto la distinzione tra potestà legislativa e titolarità amministrativa. Semplificando sino al limite di banalizzare possiamo dire che la prima si riferisce a dove vengono prese le decisioni che portano a formulare le leggi, e in relazione a che tema. La seconda, la titolarità amministrativa, si riferisce al livello territoriale cui spetta la competenza di governare quali aspetti della pubblica amministrazione.

Partiamo da quest’ultimo punto: l’amministrazione e il governo. La spesa pubblica è composta per i 20% dal costo del lavoro del pubblico impiego, per il 33% dalle pensioni; il restante 47% è distribuito tra acquisto di beni e servizi – in questo ambito gran parte è rappresentato dal servizio sanitario – investimenti e infine dal pagamento di interessi sul debito. Di conseguenza entrare nel merito dell’amministrazione della spesa pubblica, della sua ripartizione e quindi anche del suo governo, significa inevitabilmente entrare nel merito della contrattazione.

Da questo punto di vista è rilevante l’emergere nel dibattito regionale di una crescente attenzione alla contrattazione decentrata; tuttavia non si può affrontare seriamente questo tema senza porre sul piatto tanto la contrattazione del privato quanto quella del pubblico. Bisogna essere consapevoli che nell’ambito della pubblica amministrazione la situazione attuale è quanto di più lontano vi possa essere da una contrattazione regionale; se infatti prendiamo in esame la relazione tra Pil pro capite e retribuzione media, nel comparto privato emerge una perfetta correlazione; più è basso il Pil pro capite, più sono basse le retribuzioni e viceversa. Al contrario, nel comparto pubblico le retribuzioni sono omogenee su tutto il territorio nazionale.

Questo fatto dovrebbe stimolare una riflessione sulla possibilità che si creino, proprio in ragione di forzata omogeneità, elementi di sperequazione, anche all’interno dello stesso comparto pubblico. Pertanto: 1. intervenire seriamente sull’amministrazione, e quindi sulle deleghe amministrative, richiede di intervenire anche sulla contrattazione del lavoro; 2. è opportuno interrogarsi se e in che misura abbia ancora senso la totale omogeneità contrattuale nel pubblico a livello nazionale, senza tenere conto dei differenziali regionali in termini di costo della vita, di retribuzioni medie nel comparto privato e di altri fattori di disparità.

Un secondo tema che vorrei richiamare riguarda invece il rapporto tra sussidiarietà e la capacità di risposta effettiva alle esigenze di un territorio. La domanda è: una maggiore sussidiarietà, ovvero uno spostamento del baricentro decisionale più vicino al territorio, garantisce di per sé una maggiore efficacia? La risposta è: non c’è nessun automatismo. Basti pensare ad esempio alle competenze dei Comuni in materia urbanistica, e al ruolo di regolatore che le regioni hanno a tutti gli effetti in materia, a fronte delle domande di riduzione della burocrazia. Questa “sussidiarietà” non ha portato automaticamente a significativi passi avanti verso la semplificazione dei regolamenti comunali, né in direzione di una loro armonizzazione: ogni Comune è una libera repubblica con la sua conseguente burocrazia. Lo stesso vale per tutte le altre materie. Prendiamo l’istruzione: in questo momento sentiamo spesso richiamare il tema dello scollamento tra i fondamentali capisaldi famiglie-imprese-istituzioni scolastiche. Le famiglie orientano i figli nel tentativo di perseguire un miglioramento della loro condizione sociale; le imprese lamentano il disallineamento tra le competenze richieste e quelle disponibili; le scuole – come pure le università – sembrano talvolta animate più da una competizione sull’acquisizione dello studente che non dalla effettiva applicabilità della loro offerta formativa. Ora, il fine dell’azione di governo deve essere migliorare l’incontro tra queste esigenze. La domanda è: in che misura e in che modo una maggiore sussidiarietà, una maggiore vicinanza della potestà amministrativa al livello locale, aumenta la capacità di risposta a queste domande?

Infine, per tratteggiare il terzo punto, quello relativo all’associazionismo comunale, osserviamo alcuni chiaroscuri nell’esperienza diretta di innovazione nell’organizzazione dei Comuni. In provincia di Vicenza, nei 70 Comuni al di sotto di 5000 abitanti, il 42% della spesa corrente comunale è catturato dalle funzioni generali di amministrazione e gestione: dalla ragioneria ai tributi, dall’anagrafe all’ufficio tecnico; in sostanza, per il funzionamento stesso della macchina amministrativa. La percentuale, nei Comuni oltre i 10.000 abitanti, scende al 30%; al 19% nei 5 Comuni oltre i 25.000 abitanti. Nelle 46 amministrazioni sotto i 3000 abitanti la spesa per le funzioni generali è di circa 330 € all’anno per abitante; nei Comuni oltre i 25.000 scende a circa 150 € per abitante: meno della metà. Questo mette a disposizione maggiori importi da spendere negli ambiti dei settori sociali, del territorio, e per la sicurezza. Come è possibile ridurre l’incidenza delle spese “fisse” di gestione? Una possibile soluzione è rappresentata dalla gestione in forma associate delle funzioni generali mediante le Unioni dei Comuni. Queste tuttavia, nei pochi casi in cui sono state realizzate, sono rimaste ben lontane dal gestire in forma associata le funzioni generali, proprio quelle per le quali i dati suggeriscono rilevanti economie di scala. In una provincia dove quasi il 60% dei comuni ha meno di 5000 abitanti, è possibile liberare risorse da poter reinvestire sempre a livello comunale, a condizione, anche con l’ausilio delle province, di gestire le funzioni generali mediante unioni di comuni, di adeguata dimensione, alla scala, ad esempio, dei vecchi distretti sanitari. Le stime di una apposita simulazione infatti indicano che, organizzando le funzioni generali non per singolo comune ma in forma associata per più comuni si potrebbero liberare risorse da rimettere in gioco per il territorio intervenendo nel miglioramento dei servizi stessi. Una simulazione prudenziale restituisce un potenziale di risparmio di oltre 31 milioni anno nella sola provincia di Vicenza.

Il ragionamento sviluppato fin qui evidenzia dunque come le variazioni negli equilibri amministrativi possono essere volani di sviluppo e innovazione solo nella misura in cui sono accompagnate da un cambiamento nel rapporto tra amministrazione e rappresentanza. La definizione degli ambiti di maggiori competenze dovrà essere un passaggio collettivo, un percorso che definisca più ampiamente il rapporto di competenze tra le regioni e lo stato. Questo percorso non potrà essere realizzato restando circoscritto nell’ambito del confronto politico-amministrativo. Deve esserci infatti un obiettivo di miglioramento della vita dei cittadini e delle imprese e questo è perseguibile a condizione che vi siano organizzazioni di rappresentanza efficaci e consapevoli del loro ruolo propositore nei confronti dell’attività amministrativa e legislativa.

GIOVANI, LE COMPETENZE INDIVIDUALI NON BASTANO

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su VeneziePost – 15 settembre 2017]

Un’indagine realizzata per la Provincia di Trento fa emergere un dato interessante: i giovani, se da un lato ritengono più utile per il loro futuro il rafforzamento delle competenze individuali, dall’altro lato quanto più scelgono di partecipare alla vita sociale organizzata, tanto più riescono a guardare positivamente alla loro dimensione lavorativa e professionale futura.

Il Trentino tra i territori del Nordest è quello che, insieme all’Alto Adige, è cresciuto di più demograficamente; in particolare è riuscito, a differenza di altre regioni del Nord Italia, a esprimere una crescita naturale con un tasso di natalità superiore alle altre. Ciononostante, anche nelle due province autonome si osservano fenomeni di de-giovanimento. Ponendoci di fronte ai fenomeni di crisi e di discontinuità evidenziatisi in quest’ultimo decennio e guardandoli secondo la prospettiva delle politiche per la famiglia, è importante dunque cercare di comprendere se, e in che modo, il venir meno di una serie di certezze in􀃥uenza il processo di autonomizzazione dei giovani.

Partendo dall’ipotesi che l’incertezza rappresenti un tratto caratterizzante di questa fase storica, e che richieda in qualche modo di essere governata da ciascuno, una domanda sensata è la seguente: quali sono gli elementi che i giovani ritengono essere un valido aiuto per affrontare il loro futuro, renderli più fiduciosi di fronte al mercato del lavoro e sereni nell’avviare a loro volta un percorso di genitorialità.

Proprio per approfondire queste dinamiche l’Agenzia per la famiglia, la natalità e le politiche giovanili della Provincia Autonoma di Trento ha promosso un’indagine su un campione di 360 giovani trentini di età compresa tra i 19 e i 35 anni. La ricerca ha consentito di evidenziare come, negli ultimi 10 anni, per i giovani trentini siano aumentate le condizioni ritenute indispensabili per poter uscire dalla famiglia e andare a vivere da soli: non solo un reddito sufficiente a mantenersi, ma anche la stabilità del lavoro e poi il sostegno economico della Provincia, la casa di proprietà…

In qualche modo i giovani nel 2016 sembrano porsi, e richiedere, maggiori garanzie prima di poter procedere a questo passo di quanto non fosse per i loro coetanei del 2006. E ciò è tanto più vero se si confronta il bisogno di certezze che viene espresso da quanti vivono ancora con i genitori rispetto a quanti vivono già da soli, con una sopravvalutazione del bisogno di garanzie e rassicurazioni. Insomma, l’indipendenza vista dalla finestra della casa paterna fa più paura di quanto non faccia vivendola direttamente. In tale contesto è evidente che la fiducia circa la possibilità di trovare un lavoro sufficiente per mantenersi da soli gioca un ruolo fondamentale: se ritengo che non troverò un lavoro, di fatto non potrò mai andare a vivere per conto mio. Più sono negativo su quel fronte, più sarò pessimista circa la possibilità di potermi realizzare autonomamente. La situazione paradossale, dunque, è che, in una fase in cui sono messe in discussione determinate certezze macroeconomiche, si accresce la fame di rassicurazioni, con il rischio però di generare una crisi di fiducia. Quali sono i punti di forza del Trentino che maggiormente contribuiscono al benessere delle persone? Nella percezione dei giovani al primo posto vi sono la Provincia e il sistema della formazione superiore e universitaria, seguiti poi dalle reti familiari, comunitarie e associative. Un risultato certamente positivo per la realtà trentina e che rende conto dell’impegno dell’amministrazione sul territorio.

Tuttavia, in una prospettiva comparata, è interessante guardare ad elementi che in qualche modo rimandano a fattori generali, superando la specificità. L’analisi in questo senso ha consentito di comprendere l’utilità attesa dai giovani di una serie di fattori: fattori che consentono il rafforzamento delle competenze individuali, fattori che realizzano una partecipazione all’ecosistema, e fattori relativi all’alimentazione della propria sfera affettiva e amicale.

Tutte le dimensioni proposte, ad esclusione dell’essere membro attivo della propria parrocchia e partecipare attivamente alla vita politica, sono ritenute da più di metà dei giovani trentini utili al proprio futuro. Tra queste, sono ritenute utili da almeno il 90% dedicare tempo e attenzione ai propri familiari (96%), migliorare la conoscenza delle lingue straniere (95%), dedicare tempo e attenzione agli amici (91%) ed essere sempre aggiornato sulle iniziative e opportunità della provincia. Migliorare la conoscenza delle lingue straniere è il fattore che raccoglie la più elevata percentuale di risposte molto positive, con un 80% seguito da dedicare tempo e attenzione ai propri familiari (77%). Superiori a 3/4 di risposte complessivamente positive sono anche continuare a studiare e migliorare le proprie competenze (87%), impegnarsi attivamente nel paese o quartiere (83%), apprendere forme di risparmio o investimento finanziario (77%) e apprendere gli strumenti per avviare un’attività imprenditoriale (76%).

Partecipare attivamente ad un’associazione si mantiene ancora al di sopra del 50% di risposte positive (68%), mentre essere membro attivo della propria parrocchia e partecipare attivamente alla vita politica sono giudicati abbastanza o molto utili per il proprio futuro rispettivamente dal 39% e dal 38% dei giovani.

Apparentemente nulla di particolarmente innovativo: famiglia e competenze come fattori chiave. Tuttavia, se si analizzano questi risultati ponendoli in relazione con la fiducia sul trovare in futuro un lavoro emerge che chi attribuisce importanza alla partecipazione all’ecosistema (organizzazioni, associazioni di volontariato, pro-loco e finanche la parrocchia) è anche tendenzialmente più fiducioso sul suo futuro. Una analisi di regressione dei tre macro fattori (competenze individuali, rete affettiva, partecipazione) sulla fiducia circa la possibilità di trovare un lavoro che consenta una vita autonoma ci dice proprio questo: i giovani, se da un lato ritengono più utile per il loro futuro il rafforzamento delle competenze individuali, dall’altro lato quanto più scelgono di partecipare alla vita sociale organizzata, tanto più riescono a guardare positivamente alla loro dimensione lavorativa e professionale futura.

Il tema merita ovviamente ulteriori approfondimenti. Tuttavia, la ricerca restituisce di per sé un’interessante prospettiva di lavoro e invita a ragionare sul benessere di una comunità non solo dalla prospettiva delle competenze individuali di cui si dotano i singoli, ma anche da quella del capitale sociale di cui gli individui, attraverso la partecipazione attiva, sono al contempo creatori e beneficiari. L’idea di fondo su cui riflettere è che l’incertezza non può trovare risposta in un continuo ed esclusivo accrescimento della dote individuale di competenze secondo l’equazione “più competizione globale, più incertezza, più competenze”. Né, tanto meno, la risposta può arrivare dal ripiegamento affettivo intergenerazionale. Emerge invece la domanda forte di una consapevole partecipazione, che relativizzi il senso di solitudine e di inadeguatezza di fronte ad un contesto globale complesso e incerto e rafforzi l’esperienza di far parte di una comunità di destino. Il terreno di gioco della politica, della rappresentanza e dei corpi intermedi.