TERRITORIO, CAPANNONI E LE REGOLE CHE MANCANO

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su Monitor di VeneziePost – 22 Marzo 2015]

La discussione sullo sviluppo insediativo, residenziale e produttivo nella provincia di Treviso ha ormai raggiunto i vent’anni. Nella seconda metà degli anni Novanta, i riflettori mediatici si sono accesi sul fenomeno Nordest e accanto alle evidenze macroeconomiche ha iniziato a prendere piede un dibattito, spesso sterile, sui costi di questo sviluppo. La provincia di Treviso – e così tutto l’arco pedemontano, da Verona a Pordenone – in cinquant’anni ha visto crescere la popolazione di circa 270 mila abitanti, aumentata del 44%; si è compiuta una conversione da un’economia ancora ampiamente agricola a una pienamente manifatturiera (oggi è ancor più corretto parlare di “manifatturiero terziarizzato”); inoltre, a dispetto delle profezie di declino industriale (pre-crisi e nel corso della crisi), Treviso si attesta ottava provincia esportatrice in Italia (dati Istat) e settima in Europa per vocazione industriale (secondo una recente ricerca della Fondazione Edison) in una graduatoria che vede ai primi tre posti, nell’ordine, Brescia, Bergamo e il territorio di Wolfsburg.

Che il paesaggio si sia fortemente trasformato è evidente. Generalmente le valutazioni di questa trasformazione sono negative senza però andare oltre a una lettura superficiale. Oggi possiamo hiederci dato il momento storico, in questa provincia poteva realisticamente andare diversamente? Se si va a vedere altri territori con analoga vocazione industriale, tassi di crescita economica e demografica simili, il panorama non sembra molto diverso. Detto in altri termini, sarebbe stato difficile non attendersi una proliferazione di zone industriali (oggi sono 1077 distribuite in 95 comuni), in un contesto di decentramento “in orizzontale” della storica impresa fordista, con una forte domanda di territorio da parte di un’imprenditoria di piccola dimensione (si ricorda soltanto che a Treviso, tra il 1971 e il ‘91, il numero delle unità locali operanti nell’industria più che raddoppia, passando da circa 10 mila a oltre 23 mila), con un assetto normativo quale quello italiano in cui i comuni hanno piena autonomia in materia urbanistica.

Ora, la realtà ci restituisce un quadro sociale ed economico più complesso di quello di 20 anni fa. Convivono diverse istanze che agiscono sul territorio – dalla attesa di (ri)messa a valore dei capannoni dismessi, alle richieste di ampliamento delle imprese, dalla domanda di occupazione a quella di riqualificazione del paesaggio, dalle richieste di nuove aree produttive alle istanze di salvaguardia del terreno agricolo. Una ricerca dell’Osservatorio Economico e Sociale della provincia di Treviso presentata in questi giorni, ha evidenziato che anche in un contesto ad alta frammentazione quale quello trevigiano, circa il 60% delle superfici produttive è concentrato in 28 piattaforme e che all’opposto, la percezione di disordine insediativo appare riconducibile al 15% della superficie produttiva, distribuito però in zone pulviscolari. I cluster produttivi che emergono dall’analisi sono in larga parte di natura sovracomunale, ovvero si sviluppano a cavallo di più comuni. Rispetto poi al tema del patrimonio immobiliare inutilizzato, un approfondimento su tre aree interessate da altrettante piattaforme ha rilevato che l’incidenza degli immobili produttivi inutilizzati varia, tra i casi, dal 10% sino al 20%. Un fenomeno dunque di assoluto rilievo.

Partendo da questi dati e lasciando da parte le retoriche del ripiegamento e della decrescita, si tratta evidentemente di riflettere se, a fronte di un quadro più articolato culturalmente, politicamente ed economicamente, sono ancora attuali gli strumenti normativi e regolativi e i livelli di attribuzioni delle competenze. Alcuni punti sono da subito individuabili e andrebbero affrontati. Bisogna domandarsi sino a che punto ha ancora senso una rigida classificazione per destinazioni d’uso in tutte quelle situazioni in cui non sono presenti attività o ad elevato rischio o ad intrinseca attrazione di grandi volumi di traffico. La compresenza di attività artigianali, terziarie ed industriali è possibile senza che da tale mescolanza si generino esternalità negative.

Nell’esperienza comune – inoltre – si vedono spesso piccoli fazzoletti di verde tra i capannoni. Derivano in molti casi dall’applicazione di standard, di cui si fatica a coglierne la razionalità. Gli spazi verdi richiedono una estensione adeguata per poter assumere e far percepire un reale valore. Il criterio convenzionale di distribuzione di parcelle di verde a standard nell’ambito di una pianificazione comunale non ha generato ampi corridoi verdi – che mancano nei contesti più urbanizzati – ma fazzoletti di degrado e abbandono. La responsabilità delle scelte in materia urbanistica resta incardinata in capo alle amministrazioni e agli uffici comunali e le recenti riforme sugli enti locali non hanno toccato l’impianto delle competenze. Far affidamento alla volontarietà delle singole amministrazioni di cooperare è irrealistico prima ancora che illusorio. Se si vuole oggi coordinare il nuovo sviluppo con la riqualificazione, la scala di pianificazione generale e di valutazione delle leve perequative e compensative in materia di insediamenti produttivi deve essere sovra comunale, quanto meno a livello di ambito distrettuale.

Un ulteriore elemento, strettamente connesso ai precedenti, riguarda la questione della semantica dei piani e dei regolamenti. I piani comunali sono costruiti solo in parte adottando denominazioni e classificazioni comuni. La composizione di un piano sovra comunale richiede, stanti le differenze semantiche, una attività di normalizzazione spesso non banale in ordine di tempo e di costi operativi. Analogamente avviene per i regolamenti edilizi, esito di sedimentazioni successive proprie per ciascun comune. Il risultato è che una attività di programmazione intercomunale, che consenta anche una valutazione integrata di oneri, perequazioni e compensazioni risulta forzatamente rallentata a prescindere dalla volontà politica delle amministrazioni. Si tratta di provare, fuori di retorica, ad essere davvero smart.

Un’ultima considerazione riguarda l’obiettivo generale a cui tendere. I processi di riqualificazione, rigenerazione e, più in generale, il perseguire un miglioramento della qualità complessiva del territorio, richiedono di riuscire ad utilizzare come leve non solo il ruolo regolatore delle amministrazioni ma anche e soprattutto l’interesse privato. Stante le caratteristiche del sistema economico provinciale, qualsiasi scenario si voglia disegnare deve comunque rispondere a un obiettivo di rafforzamento della capacità produttiva manifatturiera di generare valore aggiunto ed esportazioni, elementi questi che si riflettono sull’occupazione diretta, indiretta e indotta. Bisogna dunque capire come evolvono gli spazi fisici entro i quali si realizza la produzione, quali sono le forme e le dimensioni che chiede il sistema produttivo del 2020.

CITTÀ, IMMOBILI E UN MERCATO CHE NON SA COMUNICARE

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su VeneziePost – 12 Novembre 2014]

Tra il 1961 e il 2001 la popolazione dei 5 capoluoghi più popolosi del Veneto (Venezia, Verona, Padova, Vicenza e Treviso) è rimasta sostanzialmente stabile mentre quella delle loro prime cinture è cresciuta dell’85%. Ancora, nel decennio tra il 2001 e il 2011 le prime cinture sono cresciute di circa il 15% mentre i capoluoghi solo del 3,5%. Fin qui nulla di nuovo: il fenomeno è stato anche troppo descritto e interpretato. Il problema è che quasi sempre la lettura si è limitata a ipotizzare una sorta di attrazione dell’ambiente (pseudo)rurale: «le gente vuole vivere nelle case a schiera in mezzo alla campagna. Ma se davvero la città attrae meno, come mai la popolazione si è accalcata intorno ai suoi confini? Con tutti i distinguo del caso, l’immagine mi ricorda le scene dei profughi ai valichi di frontiera. Davvero la gente non vuole vivere in città?

Se si va a vedere cosa è successo nelle province venete in cui non c’è stata esplosione demografica (Belluno e Rovigo) tra il 1962 e il 2001 la popolazione dei capoluoghi è cresciuta mentre quella delle loro cinture è calata; nel decennio successivo le cinture sono cresciute ma comunque meno dei capoluoghi. Si potrebbe dire che Belluno e Rovigo sono più piccole degli altri capoluoghi e che per questo sono state meno repulsive. Falso! La stessa dinamica di crescita è accaduta anche nei suoi centri medi: ad esempio Conegliano e Castelfranco, simili per dimensione a Belluno e Rovigo. Anche qui la popolazione si è addensata intorno ai comuni di cintura, replicando a scala ridotta quanto accaduto nei centri maggiori. Tutto questo dovrebbe suggerirci una conclusione: la gente è attratta dalla città e se non ci vive è (anche) perché a parità di costo non riesce a trovare un’offerta rispondente alle sue esigenze, ma cerca di restarvi il più vicino possibile perché nelle città più grandi si trovano i servizi che non si hanno nel resto del territorio. Alla fin fine non è altro che quello che l’Europa intende quando parla di città come motori dello sviluppo. Ciò dovrebbe far riflettere per il futuro. Se si accetta l’idea che il mercato non è così inesorabilmente attratto dalle villettopoli, forse, per la generazione che cercherà casa oggi e nei prossimi anni, la città è il luogo in cui desiderare di vivere. A condizione di potervi accedere a un costo che non può essere quello riservato al mercato ricco. Ora, siamo sicuri che anche nell’offerta immobiliare non ci sia un problema di incontro domanda-offerta? Si dirà: «è ovvio che c’è, le case non si vendono». Non è di questo che parlo. La domanda è: siamo sicuri che i contenuti dell’offerta vengano sempre considerati dai potenziali acquirenti come dei contenuti rilevanti e non piuttosto dei frills (degli sfronzoli) che aumentano il costo più di quanto non aumentino il valore? Per capirci, in un quartiere tutt’altro che “affluent” di un capoluogo veneto stanno costruendo un complesso residenziale con piscina, affaccio diretto su un vecchio e grande complesso di edilizia popolare e con la piscina comunale a 500 metri. In bocca al lupo ovviamente per l’iniziativa, ma, in generale, non è certo aumentando i costi di gestione degli immobili che posso incentivare l’acquisto.

Secondo esempio. Gli annunci immobiliari continuano a traboccare di inserzioni con foto invisibili e messaggi del tipo “travi a vista”, fregi in gesso sul frontale e giardino privato: poi magari l’appartamento è di 50 metri quadri e il giardino è più piccolo dell’appartamento. Terzo esempio. La ricerca spinta di certificazioni costa in termini di progettazione, realizzazione e manutenzione. C’è il rischio che nella rincorsa dell’ottimo (la casa iper-efficiente) si introducono fattori di costo che respingano ancora una volta anziché attrarre nelle città. Su questi punti varrebbe la pena riflettere seriamente nell’apprestarsi a metter mano alla riqualificazione di aree e immobili nelle città.