Lauree troppo elevate o troppi lavori a bassa qualificazione: quale retorica preferire?

[di Sergio Maset]

La vignetta è carina ma proviamo a non farne la solita mielosa lamentela dei giovani che si laureano e poi fanno lavori che potrebbero fare anche senza laurea. Il cappello di McDonald sta bene anche durante gli studi perché indossarlo aiuta a capire che oltre al titolo di laurea nel lavoro ci vuole passione e voglia.


Durante l’università, come tanti altri ragazzi, ho avuto dei contratti di lavoro da 150 ore con l’ente allo studio di Trento: piccoli contratti con l’Opera Universitaria per tirare su qualche lira per le sigarette. Nulla di confrontabile con l’impegno di un McDonald. Ma qualcosa però l’ho imparato anche lì. Mi è capitato di imbustare riviste, attaccare etichette, fare l’operatore video al cineforum, il custode ad un centro polifunzionale. Durante uno di questi contratti partecipai al programma per orientatore nelle scuole superiori. Ci formarono e poi ci mandarono a presentare i nostri corsi di laurea ai ragazzi delle classi quinte. Io ero sempre entusiasta quando presentavo la mia facoltà, senza minimizzare il fatto che sociologia – perlomeno in quegli anni e a Trento – aveva una forte impronta statistica e metodologica e richiedeva di avere un minimo di competenze matematiche per riuscire al meglio.
Ricordo che alla fine di uno di questi incontri una professoressa che aveva seguito la mia presentazione venne da me e mi disse: “Ê stata una presentazione molto bella, avresti fatto venire voglia anche a me di iscrivermi se non fosse che io mi sono laureata in sociologia ma non ho trovato il lavoro che c’era scritto nella guida. Non dovreste dire che si trova lavoro!”. “Quale lavoro non ha trovato?” le chiesi allora. “In Provincia” mi rispose. Penso che quella persona avesse studiato sociologia come tanti facevano e fanno tuttora: scegliere una laurea tra quelle meno complicate per potersi chiamare dottore. Lei il lavoro l’ha trovato ma non quello che aveva in mente. Forse perché più che un lavoro aveva in mente un posto di lavoro. Il problema poi è che è andata ad insegnare, una professione, quello sì complessa e impegnativa che, sarebbe meglio, non fosse un ripiego.

Morale della favola
O sei mosso dalla passione o sei mosso dall’ambizione, ma qualcosa deve muoverti e non sarà certo il titolo di studio a trovare il lavoro al posto tuo. Altrimenti ti tocca prendere quello che arriva.

La laurea, per molte posizioni, non è un plus ma solo la base di partenza: il plus ce lo deve mettere il singolo. Si può certo discutere se tutto ciò abbia senso, ma la questione resta. Alcuni per emergere ci mettono passione, capacità e determinazione, altri un’università prestigiosa, altri ancora le conoscenze di parenti e amici. Qualcuno tutte e tre le cose. La buona notizia è che c’è spazio anche per chi ci mette solo la prima delle tre: passione, capacità e determinazione. Il problema è che magari emigra e la fortuna – il fattore C da non dimenticare mai – la trova altrove. Ma anche questa è un’altra storia.

Come transitare in modo sostenibile verso un nuovo equilibrio demografico

[di Sergio Maset e Andrea Mamprin

L’articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2022 su VeneziePost]

Il recente fenomeno dell’eccesso di dimissioni che si sono registrate a livello regionale e nazionale non può essere letto senza considerare lo spiazzamento che ha generato il lockdown e la conseguente ripresa post Covid nel mercato del lavoro: prima il congelamento della mobilità lavorativa poi la sua successiva ripresa con la crescita delle dimissioni una volta normalizzato il quadro pandemico; l’aumento della domanda di lavoro nella filiera delle costruzioni; la ripresa del settore del turismo e la diminuzione dell’offerta da parte di lavoratori che operavano in questa filiera e con i quali, nei due anni di Covid, è stata messa in forse la continuità di relazione. Il tema è stato affrontato già in un nostro precedente articolo.

Ora, non escludiamo che l’effetto del Covid abbia inciso anche sulle motivazioni al lavoro, tuttavia concentrarsi prima di tutto su questo aspetto rischia di distogliere l’attenzione da altri fenomeni che appaiono invece strutturalmente caratterizzare il sistema sociale: ovvero l’intensità e le geometrie del calo demografico.

Nel trascorrere degli ultimi vent’anni, c’è stata infatti una consistente contrazione di nuova forza lavoro. Entrando nel merito si osserva l’effettiva intensità e le caratteristiche di questa dinamica. A prescindere dalla precocità con cui si entra nel mercato del lavoro, dalla equità di accesso di uomini e donne e dalla rispondenza dell’offerta alla domanda, vi è un dato ineludibile: la popolazione residente nel nostro paese tra i 25 e i 34 anni cresce costantemente dal 1971 al 2001, passando da 7 milioni e 363 mila a 8 milioni e 800 per poi contrarsi fino ai 6 milioni e 300 mila del 2021. Questo significa che negli ultimi vent’anni il numero di giovani è stato interessato da un vero e proprio crollo, con una perdita di oltre 2 milioni e mezzo di abitanti. Le proiezioni Istat sembrano prevedere un’ulteriore contrazione che porterebbe questo contingente sotto i sei milioni di individui nel 2041. La principale causa di questo fenomeno è il basso tasso di fecondità che caratterizza il nostro paese da quasi cinquant’anni. Ad aumentare è stata invece la popolazione superiore ai 45 anni. Tutto ciò ha comportato sino ad oggi un invecchiamento della forza lavoro. Nei prossimi 20 anni, invece il fenomeno principale sarà la contrazione assoluta della popolazione in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni), 6 milioni e 625 mila in meno rispetto al 2021, con un crollo di quasi il 20%. L’unica classe di età che dovrebbe crescere è quella dei cosiddetti over 65 che finirebbero per rappresentare un terzo degli italiani. Queste due dinamiche opposte spingono a doppia velocità la società italiana verso una serie di interrogativi di vitale importanza: come conciliare una decrescita della popolazione a una situazione così sbilanciata verso le fasce anziane? Come si adatterà il sistema pensionistico e in più in generale il welfare del nostro paese? Ci saranno problemi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, ovvero il potenziale demografico interno al paese sarà sufficiente a coprire i posti di lavoro disponibili?

Certo queste domande passano ciclicamente in secondo piano ogniqualvolta si manifesta una fase di recessione economica che riporta in auge il tema della disoccupazione. Eppure, molte professionalità scarseggiano già da tempo nel mercato del lavoro italiano e viene da chiedersi quanto sia una questione di mismatch, di richiesta/presenza di determinate professionalità e quanto in realtà cominci a dipendere da fattori demografici. Il forte ingresso di immigrati in Italia tra il 2000 e il 2010 ha in parte posposto la questione, sia perché ha determinato un forte apporto in termini di forza lavoro, sia in quanto ha generato un contributo in termini di natalità. Questa spinta però è venuta affievolendosi nello scorso decennio e si è contestualmente verificata una riduzione considerevole della fecondità delle donne immigrate dovuta soprattutto a un cambio nella composizione per età degli ingressi femminili dall’estero.

Queste dinamiche assumono tinte decisamente più forti se cominciamo ad aggiungere anche il dettaglio territoriale. La riduzione del numero medio di figli per donna si è accompagnata anche a un progressivo schiacciamento della fecondità attorno agli stessi valori in tutte le aree del paese. Se negli anni Sessanta o settanta le donne del Sud avevano in media un figlio in più rispetto a quelle del Nord, dal 2000 i tassi di fecondità sono tutti allineati. Questo maggior calo della fecondità del Sud Italia si è sommato a una minore incidenza dell’immigrazione straniera e a una forte propensione ai trasferimenti di residenza interregionali in uscita: negli ultimi vent’anni la Campania ha accumulato un deficit migratorio interregionale di circa 400 mila persone, la Sicilia di 220 e la Puglia di 180 mila. Questi tre fenomeni assieme stanno determinando quella che a tutti gli effetti potremmo definire come un’emorragia di giovani nel meridione. Se nelle regioni centrali e soprattutto settentrionali, la popolazione con meno di 24 anni è addirittura cresciuta, nelle regioni meridionali è diminuita di un valore compreso tra il 20 e il 30% in soli vent’anni: una generazione persa.

Quanto occorso negli scorsi vent’anni ha inciso significativamente sulle abitudini di acquisito, con l’aumento della spesa per la cura del corpo e per le spese sanitarie; inoltre, il calo della popolazione tra i 25 e 34 anni verificatosi tra il 2001 e il 2021 è alla base della crisi della domanda per l’acquisto di prime case emersa dal 2005 in avanti. Guardando ai prossimi vent’anni è dunque necessario interrogarsi su come governare un mercato interno con meno bambini, meno studenti, meno lavoratori e cittadini nelle fasce centrali di popolazione e molti più cittadini e consumatori nelle fasce più anziane, in un quadro di differenze sensibili tra Nord e Sud.

La crescente attenzione per la sostenibilità ambientale ha portato a interrogarsi sulla ricerca di soluzioni che consentano un più efficiente utilizzo delle risorse, dall’energia alle materie prime: esemplare in proposito è il paradigma della sostenibilità dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Un ragionamento analogo andrebbe opportunamente applicato anche per accompagnare in modo economicamente e socialmente sostenibile il nostro paese verso un nuovo equilibrio demografico. Bisognerà tuttavia uscire dall’equivoco di ritenere che le sfide tecnologiche e l’innovazione si affrontano facendo leva su un allungamento indefinito del percorso di istruzione e dei tempi di conseguimento di un titolo di universitario, verso un più precoce inserimento di laureati nel lavoro. Un passo in avanti richiede tuttavia una migliore comprensione di come cambia la competitività tra le diverse filiere produttive, di come si distribuisce la capacità di produrre ricchezza tra settori e nel paese e di quali meccanismi applicare nella contribuzione alla spesa pubblica.

Fuga dal lavoro? No. Sono gli effetti del post covid, di un aumento della domanda e della naturale aspirazione dei giovani a realizzarsi

[di Sergio Maset e Andrea Mamprin

L’articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2022 su VeneziePost]

È corretto interpretare la crescita delle dimissioni volontarie riscontrata negli ultimi trimestri ipotizzando il venir meno, dopo il Covid, dell’importanza che i lavoratori assegnano alla stabilità del lavoro dipendente?

La risposta potrebbe essere assolutamente tranchant. L’analisi dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro di Veneto Lavoro (Bussola, aprile 2022) è pienamente condivisibile e generalizzabile anche ad altre regioni ad alto tasso di occupazione: la propensione dei lavoratori di trovare occasioni di lavoro più soddisfacenti si era pressoché bloccata nel periodo del lockdown a causa della assoluta incertezza presente in quel momento. Il fenomeno che stiamo osservando altro non è che la somma di dimissioni normalmente presenti nel mercato del lavoro a cui si sono aggiunte le dimissioni “posticipate” dovute al lockdown. Dunque, prima di tutto, vi è un fatto quantitativo dato da un mercato che dopo l’inaudito shock del Covid, che ne aveva paralizzato i meccanismi, è entrato in una fase nuova in cui la ripresa della mobilità si accompagna ad alta incertezza sui cambiamenti del lavoro.

Vi è poi spesso la tendenza ad attribuire il supposto maggior disincanto nei confronti dell’occupazione dipendente ai lavoratori giovani, ipotizzando che soprattutto in loro venga meno l’attrazione per la stabilità, riconducendola ad un’ipotetica ridefinizione della scala delle priorità post Covid. Rispetto a questa conclusione si rilevano delle perplessità per almeno due ordini di ragioni. Primo, le traiettorie iniziali nel mercato del lavoro sono frutto di una naturale incertezza dell’età giovanile, in cui si sperimentano delle scelte anche in funzione delle proprie aspettative. (Misure n.110, Veneto Lavoro, aprile 2022). Gli esordi lavorativi sono infatti tipicamente caratterizzati da elevata instabilità a prescindere dal Covid.

Secondo, non bisogna cadere nell’errore di credere che per un giovane il fatto di cambiare un posto di lavoro per un altro sia sinonimo di basso valore assegnato al lavoro e che la minore propensione dei giovani alla stabilità sia un effetto della pandemia. In realtà è vero l’esatto contrario. In un’indagine del 2015 svolta su un campione rappresentativo di 400 cittadini residenti in Veneto andammo ad indagare come cambiavano tra le diverse generazioni le attese circa il lavoro. Quello che emergeva era che i giovani con meno di 30 anni vedono nel lavoro prima di tutto uno strumento di affermazione delle proprie aspirazioni, in misura doppia rispetto a quanto ritengono i loro colleghi più grandi. Danno invece molta meno importanza agli elementi di stabilità in sé (“basta che sia un lavoro” e “basta che sia un posto fisso”) e di conciliazione del lavoro con gli altri interessi o impegni, come ad esempio la famiglia. Per chi è più avanti con l’età, infatti, diventa in generale più rilevante l’attesa che il lavoro sia un fattore di stabilità in quanto tale più che di affermazione di sé.

Le posizioni di lavoro dipendente risultano in crescita in questo trimestre, iniziando ora a riagganciare un trend pre-covid. Si tratta però di tendenze ancora molto fluide e al momento, come evidenziato anche dall’Istat a livello nazionale (Nota Trimestrale, 22 marzo 2022), sono spinte molto dai settori delle costruzioni e dal recupero del turismo e ristorazione. Entrambi i comparti sono, per ragioni diverse, in una condizione di forte alterazione. Per quanto riguarda le costruzioni rileva evidentemente la spinta data dai bonus edilizi (facciate e 110% in primis) per i quali la bolla generata dagli incentivi ha portato ad un fenomeno di sovra domanda (di manodopera come di materiali) con i noti riflessi sul costo / disponibilità dei materiali ma anche di forza lavoro. Analogamente, in ripresa dopo lo shock della pandemia, il settore del turismo ha visto crescere gli occupati sul 2020 ma non raggiunge ancora i livelli del 2019. Il controllo della pandemia sta comportando una ripresa dell’attività turistica con incrementi su base tendenziale delle posizioni lavorative che proseguiranno con ogni probabilità nel corso dell’anno. Rilevante in questo settore l’incidenza della manodopera straniera che, evidentemente, negli scorsi anni, con la riduzione di presenze turistiche in particolare nelle città d’arte, ha cercato soluzioni lavorative alternative acuendo oggi le tensioni stagionali sul fronte della domanda.

L’aumento degli occupati trainato da questi due settori, per quanto ampi e significativi, non deve distogliere però da un tema più ampio e complesso rappresentato dalle trasformazioni generate dai processi di digitalizzazione, internet of things e di riorganizzazione delle produzioni e dei consumi in chiave di economia circolare, in parte accelerati proprio dalla pandemia. Tanto la manifattura quanto i servizi sono in una fase di profonda riorganizzazione; quali saranno le professionalità richieste di qui a qualche anno? Rispondere a questa domanda non è semplice ma è importante per essere in grado di costruire per tempo le competenze necessarie ed evitare fenomeni di aumento dei posti vacanti. Su questi pesa come un macigno il valore della fiducia nei processi di tipo economico. Il lavoratore quando valuta lo scambio del proprio lavoro con retribuzione e benefit, mette anche in conto il costo/opportunità di svolgere una professione piuttosto che un’altra, scommettendo in un certo modo sulla sua impiegabilità futura. Ecco che il fenomeno delle vacancy non riguarda (solo) lavori poco appetibili per il tipo di mansioni (i lavori cosiddetti “brutti e sporchi”), ma anche lavori che scontano una bassa percezione di prospettiva. Le imprese – e il problema può valere anche per settori del pubblico impiego – sulle quali vi sono dubbi circa la capacità di resilienza sono costrette a pagare un tasso di interesse elevato (retribuzioni migliori), a fronte di un elevato turnover (lavoratori sistematicamente in cerca di altre opportunità a prescindere dalla forma contrattuale con cui sono inquadrati) o in alternativa azzardare allargando le maglie (minore selezione).

Relativamente invece al rapporto quantitativo tra domanda e offerta, un’incognita è data dalle tendenze demografiche in atto nella popolazione italiana. Questo punto merita un adeguato approfondimento e verrà sviluppato a breve in un prossimo articolo. Basti per ora ricordare che i bassi tassi di natalità, che da metà degli anni Settanta sono sotto la soglia di rimpiazzo, hanno generato nel corso di questi anni un primo parziale ammanco di forza lavoro che è stato ampiamente coperto dai flussi migratori in ingresso. Negli ultimi anni, e in particolare a partire dal 2013, si è notata una certa stagnazione degli ingressi di stranieri; questo fattore unito al saldo naturale ampiamente negativo ha cominciato ad avere come risultato una flessione della popolazione residente. Questo è di per sé un evento significativo, sia perché nella storia dell’Italia unita si era verificato solo due volte (Prima guerra mondiale e inizio degli anni Ottanta), sia perché in questo caso si sta prolungando molto di più rispetto ai due casi appena citati. È lecito chiedersi, quindi, se e quanto la fase demografica che si sta aprendo vada a incidere sulle dinamiche dell’incontro domanda-offerta di lavoro e quale nuovo equilibrio si potrà configurare nel mercato.

In questa prospettiva e per queste generazioni le politiche attive devono intervenire su percorsi di ridefinizioni professionali sostenendoli sia in costanza di rapporto, nelle imprese, sia nelle situazioni di discontinuità occupazionale affinché transizione ecologica, digitale ed economia circolare, in un contesto di crescente inflazione, non agiscano da fattore di spiazzamento ed esclusione ma siano vissuti come momento di evoluzione. È questa la sfida del 2030 sul piano del welfare per il lavoro.

A crescere è la medio-grande impresa. Soprattutto in Emilia, Veneto e Toscana

[di Sergio Maset e Michele Polesana

L’articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2019 su VeneziePost]

Le ragioni per occuparsi di manifattura e analizzarne le tendenze in atto sono in Italia, e nel Nord Est in particolare, molteplici. Consideriamone tre. Innanzitutto, è sempre bene ricordarlo, l’Italia rappresenta la seconda manifattura d’Europa per valore aggiunto (263 miliardi di euro), dietro la Germania (705 miliardi di euro) e davanti alla Francia (232 miliardi di euro; 2018, Eurostat). Seconda ragione è il peso che questo settore riveste in termini di incidenza del valore aggiunto manifatturiero sul totale del valore aggiunto in regioni come il Veneto, l’Emilia Romagna (24% in entrambe), le Marche (23%), il Piemonte (22%), il Friuli Venezia Giulia (21%) e la Lombardia (20%, ma 28% escludendo la città metropolitana di Milano; 2016, Istat). La terza è data dal fatto che l’export di prodotti materiali vale l’82% delle esportazioni complessive di beni e servizi. Il turismo, settore assai rilevante della nostra economia, vale oggi il 7% dell’insieme di beni e servizi esportati (2017, Banca d’Italia) di cui una quota parte è comunque turismo d’affari, a sua volta generato proprio dall’interesse commerciale di chi in Italia compra o vende all’interno delle filiere manifatturiere. Andrebbe poi considerato un quarto ordine di ragionamento, che riguarda la capacità del settore manifatturiero di attivare una serie di servizi necessari allo svolgimento dell’attività produttiva ma che dipendono da questa – a supporto dell’esportazione, dei trasporti, del marketing e della pubblicità, dello sviluppo e ricerca sui prodotti – valutandone l’effetto indiretto, che ne aumenterebbe ulteriormente la considerazione in termini di peso sul PIL. Ma per questo momento è sufficiente considerare quanto sopra detto.

È allora una buona notizia che nel giro del quinquennio 2012-2016 l’occupazione manifatturiera di alcune province del Centro Nord[1] sia tornata a crescere. Si tratta ovviamente di tendenze di breve periodo, ma che si può provare a leggere in comparazione a quanto avvenuto nei decenni passati considerandone anche la geografia. Nel periodo 2001-2011, infatti, il numero di addetti manifatturieri era calato in tutte le province dell’Italia centro-settentrionale. Sono invece ora 13, su 64, le province in cui cresce l’occupazione manifatturiera: Bolzano, Parma, Lodi, Cremona, Belluno e Prato con un tasso superiore al 3%; ad un tasso intermedio (tra l’1% e il 3%) Firenze, Gorizia, Arezzo e Vicenza; ad un tasso più contenuto (1% o meno) Piacenza, Grosseto e La Spezia. C’è poi un dato che differenzia ancor più il ciclo 2012-2016, per quanto di breve periodo, dal precedente: mentre tra 2001 e 2011 calava in tutte[2] le province del Centro Nord il numero di addetti sia della micro-piccola manifattura (0-49 addetti) che della medio-grande (50 addetti e più), nell’ultimo quinquennio si assiste a dinamiche differenziate nelle due macro-classi dimensionali, con ben 34 province in cui cresce il numero di addetti delle industrie manifatturiere medio grandi, mentre soltanto in 4 province cresce la piccola. Una crescita, quella delle unità produttive medio-grandi, che avviene soprattutto nelle regioni di Nord Est, dove si registra nello stesso periodo anche un consistente aumento del valore aggiunto del manifatturiero, e in Toscana. Non si tratta evidentemente di una dinamica spiegabile con la volatilità di province a bassa presenza manifatturiera. Infatti anche considerando le prime 23 province, quelle con almeno 20.000 addetti nella medio-grande manifattura, risulta in crescita il numero di addetti della medio-grande impresa in 11, circa la metà di esse. Va invece osservato il carattere regionale di questi fenomeni. In Veneto ed Emilia Romagna le province in cui cresce il numero di addetti della media grande manifattura sono più di tre quarti: in Veneto tutte, con eccezione di Rovigo e con Treviso sostanzialmente stabile con lieve segno negativo; in Emilia Romagna tutte, con eccezione di Ferrara e con Reggio Emilia sostanzialmente stabile con lieve segno negativo. In Lombardia la crescita degli addetti del manifatturiero medio-grande riguarda invece solo 4 province su 12, di cui solo 2 province su 8 oltre i 20.000 addetti. Analogamente in Piemonte, dove a crescere sono solo 3 su 8 province. Una situazione, quella della medio-grande manifattura lombarda e piemontese, su cui pesano in particolare una contrazione della provincia di Torino e le difficoltà di alcuni comparti provinciali tradizionali (es. tessile-confezionamento di Bergamo, Mantova e Cuneo e chimica-farmaceutica di Milano e Monza). Tra i settori che contribuiscono maggiormente ad una variazione positiva dell’occupazione nella medio-grande manifattura regionale figurano invece il tessile-confezionamento di Milano e la meccanica avanzato di Bergamo per la Lombardia, l’industria alimentare di Cuneo e la chimica di Alessandria per il Piemonte. La geografia emergente restituisce ancora una volta l’immagine di un Piemonte fortemente de-industrializzato dal punto di vista manifatturiero e di un asse padano più spostato in direzione sud (Emilia-Romagna) e verso Est a cui si aggiunge la continua espansione dell’industria della provincia di Bolzano e alcuni segnali di ripresa della Toscana.

Una buona notizia, dunque, tantopiù che la ripresa dell’occupazione manifatturiera avviene in controtendenza rispetto ai timori generati dalla salienza mediatica del tema della robotizzazione, atteso come fattore di declino tout court dell’occupazione nella manifattura e invece fattore di crescita da leggersi contestualmente ai processi di reshoring: produzione che rientra in Italia con più intensità di capitale e maggiore impiego di profili professionali elevati.

Ma quali sono le possibili implicazioni della crescita della medio-grande manifattura? Ovvero perché, al di là delle constatazioni più ovvie, è una buona notizia questa inversione di tendenza? Torniamo a osservare l’andamento del numero di addetti manifatturieri nelle regioni dell’Italia centro settentrionale. Gli anni Settanta sono quelli della nascita della cosiddetta Terza Italia, e vedono una crescita degli addetti manifatturieri che riguarda soprattutto la micro e la piccola impresa, spinta anche da processi di esternalizzazione della grande industria. Gli anni Ottanta portano a compimento il processo di riorganizzazione della produzione in chiave distrettuale, con una crescita degli addetti che interessa unicamente le micro e piccole imprese (ad eccezione di Piemonte, Liguria e Toscana, in cui gli addetti delle micro-piccole imprese manifatturiere calano), ed una crescita dell’occupazione manifatturiera complessiva soltanto in Veneto. Gli anni Novanta, con l’imporsi della globalizzazione, segnano un’inversione di tendenza: cala il numero di addetti della micro e piccola impresa in tutte le regioni tranne Friuli Venezia Giulia, Umbria e Marche, mentre torna a crescere la media e grande impresa in Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Marche, con l’effetto che solo in esse cresce il numero complessivo di addetti manifatturieri[3]. Nel decennio 2001-2011 sulle trasformazioni indotte dai fenomeni globali si innestano le due ondate di crisi coincidenti con i periodi 2008-2009 e 2012-2013, con l’effetto di una contrazione generalizzata dell’occupazione manifatturiera, che cresce soltanto in Trentino Alto Adige e in Toscana[4].

Una crescita occupazionale ad oggi di fatto confinata al solo comparto della medio-grande manifattura sembra rispondere a logiche analoghe a quelle che avevano iniziato ad affacciarsi negli anni Novanta: le sfide imposte dalla globalizzazione e dalla competizione internazionale richiedono di essere dimensionalmente strutturati per innovare, internazionalizzarsi, esportare.

E’ la fine della piccola impresa manifatturiera dunque? A fronte di una riduzione tendenziale dei suoi addetti che procede dagli anni ’90 sembrerebbe difficile affermare il contrario. Tuttavia, non si può trascurare il fatto che dietro alla contrazione storica della piccola impresa che si osserva nelle statistiche ci stia anche il superamento di un modello produttivo che viveva in stretta relazione con la grande industria in un rapporto di esternalizzazione di manodopera e contoterzismo messo in crisi dall’automazione prima e dalla globalizzazione poi, e ora dalla digitalizzazione. All’interno delle statistiche territoriali si fatica a scindere la coda delle micro e piccole imprese manifatturiere “pre-digitali” dalle dinamiche delle imprese manifatturiere “post-digitali” che pur ci sono e nelle quali le figure di chimici, ingegneri dei materiali, ingegneri elettronici e informatici sono parte significativa della manodopera dell’impresa. Per queste ultime è ipotizzabile una crescita ulteriore proprio in relazione alla crescita della media grande impresa. Vi è infatti un importante corollario. Le medie e grandi imprese in un contesto fertile dal punto di vista finanziario e formativo sono in grado di stimolare maggiormente la crescita delle competenze dei lavoratori, diffondere innovazione, intercettare domande complesse. Ovvero domande che proprio in virtù di questa loro complessità hanno un valore anche di mercato, che stimolano l’imprenditorialità, l’ingegno, e premiano economicamente la creatività . In contesti produttivi in cui ci sono forza lavoro dotata di competenze e capacità, diffusa cultura del fare impresa e un sistema di sostegno finanziario allo start up, la media e grande industria genera interesse, con la sua domanda, alla creazione di nuove imprese. Si tratta di piccola impresa che non fornisce servizio alla popolazione o, in modo convenzionale e adempimentale, alle imprese, ma si spinge nell’innovazione di prodotti e di processi costruendo una propria offerta. Ne discende uno scenario di policy quanto mai desiderabile. In un contesto di popolazione stagnante, in cui i consumi interni difficilmente possono dilatarsi oltre modo per quanto sostenuti e incentivati, creare nuova impresa e occupazione all’interno di filiere guidate dall’esportazione in settori ad alta innovazione è una strategia di buon senso.

La ripresa degli addetti attivi nella grande e media impresa, unitamente alla crescita del valore aggiunto e delle esportazioni, sono dunque segnali positivi e ove hanno luogo costituiscono un concreto punto di partenza e di appoggio su cui ricostruire una promessa di non marginalizzazione, di non perifericità, di protagonismo per le giovani generazioni. Perciò, a fronte di sfide complesse, interpretate e affrontate dagli attori più strutturati del sistema industriale, si creano realmente e concretamente gli spazi di impiego, anche con un respiro internazionale, per nuove generazioni di collaboratori e opportunità per nuovi imprenditori.

Figura 1. Tasso di variazione provinciale 2012-2016 degli addetti alla manifattura nelle unità locali con 50 addetti e più

Fonte: elaborazione su dati Istat [5]

Tabella 1. Tasso di variazione % addetti alla manifattura per periodo e classe dimensionale[6]

Tabella 2. Addetti alla manifattura per classe dimensionale – 2016

[1] Sono state incluse nell’analisi le seguenti regioni: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche.

[2] Con la sola eccezione di Rimini.

[3] Feltrin P., Maset S. (2012), Le onde lunghe dello sviluppo territoriale del Nord, in Perulli P. (a cura di), Nord. Una città-regione globale, Il Mulino, Bologna

[4] Maset S. (2014), Opportunità e resistenze nei nuovi contesti economici e produttivi, in Quaderni della Fondazione Francesco Fabbri, 2

[5] Tra 2012 e 2016 il numero di addetti della medio-grande manifattura delle province di Treviso (-0,02%) e Reggio-Emilia (-0,4%) è tecnicamente negativo ma sostanzialmente stabile.

[6] Per coerenza con la mappa (e i dati riportati sopra) le variazioni nei periodi 2001-2011 e 2012-2016 comprendono una redistribuzione stimata degli addetti interinali (figura introdotta nel 1997). Analogamente, nella tabella successiva, i dati 2001, 2011 e 2016.

Che cosa rende attrattiva una citta? I dilemmi contemporanei per il Veneto policentrico

[di Sergio Maset]

Le singolarità – siano esse uomini o aziende straordinarie – contano eccome. Tuttavia, la sostenibilità di una società non si misura nel grado di successo di pochi eccellenti quanto nella sua capacità di trasformare i buoni esempi in opportunità e queste in occasioni e strumenti di crescita diffusa. Per questo la relazione tra sistema produttivo, istituzioni, scuole e famiglie va costruita e alimentata. Una città può dirsi tale, a prescindere dalla sua effettiva dimensione, se riesce ad essere il luogo in cui questa consapevole relazione viene rinnovata e si traduce in rappresentanza.

Dopo quasi mezzo secolo di fuga dalle città più grandi, per la prima volta negli ultimi anni assistiamo ad una loro rinnovata crescita demografica. Si può provare a comprenderne le ragioni considerando l’effetto combinato di una serie di fenomeni di medio e lungo periodo. Il primo è dato dal fatto che le città, grazie a decenni di normative e investimenti sui motori delle auto, sul rinnovo degli impianti di riscaldamento, sulle emissioni industriali e, non da ultimo, attraverso lo spostamento al di fuori delle città dell’industria pesante, oggi non sono più le camere a gas che erano sino a qualche decennio fa. Il secondo fenomeno riguarda il mercato immobiliare che a fronte di un rallentamento della spinta demografica e con il mondo del terziario in profonda trasformazione ha visto abbassarsi le rendite e dunque i prezzi di affitti e vendite. Insomma, dopo una lunga fase in cui le città erano appannaggio di benestanti, banche e assicurazioni, il mercato torna ad essere appetibile per un ceto medio un po piu giovane e per negozi nuovamente a dimensione di vicinato. Considerato che in molte città si pone la necessità di metter mano a progetti di rinnovamento urbano (dai padiglioni fieristici alle caserme passando per mercati generali e fabbriche abbandonate) c’è la possibilità di sostenere ulteriormente una crescita demografica delle città con politiche abitative che coniughino qualità, centralità e disponibilità del portafoglio delle giovani famiglie.

La parte più complessa e stimolante della faccenda sta nel fatto, e qui vengo più direttamente al Veneto, che dopo quarant’anni di crescita generalizzata della domanda di forza lavoro, nell’ultimo decennio siamo in una situazione di sostanziale stagnazione a cui si aggiunge l’invecchiamento della popolazione per cui il rapporto tra occupati e popolazione anziana continua a precipitare. La situazione è per certi versi paradossale: da un lato non possiamo più permetterci di estromettere le donne dal mercato del lavoro e dall’altro dobbiamo trovare il modo di conciliare la loro maggiore inclusione con un aumento del numero di figli per ogni famiglia. Insomma, rivoluzionare l’immagine della famiglia. Non si tratta ovviamente di una sfida solo veneta: vale anche per le altre regioni del nord, con l’eccezione del solo Trentino Alto Adige.

Con l’arresto della spinta demografica e le molteplici trasformazioni del terziario (digitalizzazione dei servizi e ecommerce in primis) i prezzi nei capoluoghi di provincia diventano più accessibili e la popolazione riprende a concentrarsi nella città. Ma se ciò vale per i capoluoghi, che continuano localmente a svolgere il loro ruolo di città – in Veneto persino Belluno e Rovigo sono cresciuti nell’ultimo decennio – la sfida appare del tutto aperta per le piccole e medie cittadine, tra i 20 e i 40 mila abitanti. Che cosa può rendere attrattiva una di queste città? Ogni città, grande o piccola, che aspiri a ricoprire fattivamente questo ruolo, deve interrogarsi su come perseguire 3 obiettivi. Prima di tutto creare condizioni durature di espansione economica. Va rifiutata la retorica della decrescita felice mentre sono da perseguire forme sostenibili e responsabili di espansione, di crescita economica. Il secondo obiettivo è quello di inclusione che si traduce nella capacità di impiegare efficacemente le risorse umane di un dato territorio, donne e giovani in primis. Il terzo obiettivo è quello di conciliazione che significa rispondere al bisogno delle persone di vivere al meglio la pluralità di dimensioni della loro esistenza: conciliare dunque cura famigliare, impegno lavorativo, partecipazione sociale, ricreazione, cura del proprio benessere fisico.

Provando a scendere dunque nell’esperienza di analisi di Vittorio Veneto, il primo obiettivo, l’espansione, richiede di prendere consapevolezza che il presente del sistema produttivo della città si caratterizza ancora per una fortissima presenza industriale: il 40% degli addetti che operano nel comune lavora nell’industria manifatturiera, con una larghissima prevalenza di grandi imprese. In generale, queste rappresentano una risorsa per tutto il sistema produttivo in quanto sono le uniche in grado di stimolare l’acquisizione di ulteriori competenze da parte dei lavoratori, di sostenere la diffusione di innovazione, la concreta nascita di startup innovative oltre ad alimentare un indotto locale di piccole imprese. Ed è con aziende di grande dimensione che la città può sperimentare concretamente forme di innovazione sociale finalizzate a realizzare una maggiore inclusione dei giovani e delle donne. Ciò deve tradursi ad esempio in una più efficace attività di orientamento scolastico per i ragazzi delle scuole medie e le loro famiglie ma anche in una rete di servizi per la prima infanzia e sostenendo forme di smart working. Un territorio si può definire lungimirante nel momento in cui riesce a valorizzare e ottimizzare le sue esperienze di valore incluse quelle maturate sul versante dei servizi sociosanitari. Trattandosi di una città che ha molto da offrire in termini di qualità degli spazi urbani, le sue concrete possibilità di crescita sono legate alla capacità di trattenere e attrarre giovani famiglie facendo leva anche sulla vicinanza del centro storico al casello autostradale e sul rilancio del collegamento ferroviario con Treviso e Venezia. Infine, una città che si rende attraente agli ospiti, ai lavoratori e ai visitatori delle sue imprese attraverso servizi e proposte di qualità per il benessere, la ristorazione e il tempo libero diventa più interessante anche per le giovani famiglie.

Contrattazione salariale e autonomia, Il Sud non ci sta

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia, Il mattino di Padova, il 2 febbraio 2019]

A un anno dal referendum veneto sull’autonomia, il dibattito si è acceso a livello nazionale portandosi sul piano del confronto Nord-Sud e facendo emergere un punto finora per nulla considerato: i meccanismi di contrattazione salariale. Le retribuzioni della pubblica amministrazione, uguali da nord a sud, sono uno strumento di livellamento reddituale del paese, che tira in alto il reddito medio nel sud e lo livella al ribasso nel nord, con una forzata indifferenza ai divari regionali del prodotto interno lordo. Domanda: può una seria riforma autonomista non affrontare il tema della contrattazione regionale? La risposta è negativa perché la spesa pubblica corrente è costituita in larga parte da retribuzioni. Inoltre, l’assenza di omogeneità tra retribuzioni nel pubblico e nel privato pone a mio avviso una questione di equità, tra comparti diversi in una stessa regione, e tra regioni diverse all’interno del comparto pubblico. Il nodo vero dunque è il seguente: è disposto il meridione a mettere in discussione questo meccanismo? A giudicare dalle risposte del mondo industriale meridionale, la risposta è sinora negativa. Tuttavia, e qui sta il punto, non si vedono nemmeno le proposte delle rappresentanze sindacali del nord.

Per venire al Veneto, qui più che in Lombardia e in Emilia Romagna, si respira la frattura tra privato e pubblico impiego. Il privato è l’icona della produttività, contrapposto alla retorica del pubblico, sotto sotto sempre indicato, ahimè, come burocratico, inefficiente e statalista. A 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale, primo vero momento unificante dell’Italia, in Veneto le istituzioni pubbliche sono ancora vissute come corpi esterni, borbonici o lombardi. Ecco dunque un nodo problematico nel percorso di riforma autonomista: intervenire su un qualcosa, l’assetto di competenze nella pubblica amministrazione, di cui non si è costruito un interessa della società veneta. Ben diversa è la situazione nel meridione. Posto su questo piano il confronto, la palla torna alla rappresentanza del nord e del Veneto: o si è in grado di costruire un consenso politico per discutere nel merito dei cavilli che spostano risorse (contrattazione decentrata, allocazione del tfr, minimi salariali, ecc), oppure il percorso rischia di condannarsi all’irrilevanza. Perché questo prosegua bisogna partire dal riconoscere che abbiamo bisogno di migliorare le istituzioni e non di meno istituzioni. A fronte di una maggiore complessità, basti pensare alle sfide degli equilibri demografici, della denatalità, della gestione delle risorse energetiche e naturali, abbiamo bisogno di esprimere crescente qualità di gestione politica e amministrativa nella dimensione dell’agire collettivo. E un primo urgente terreno su cui investire è quello dell’istruzione: dalla scuola dell’infanzia all’università, ridando alle istituzioni scolastiche la dignità e le risorse che servono: certamente con una diversa distribuzione delle risorse e non con altra spesa in deficit.

LA DOMOTICA È ‘FUTURO’, ‘INTELLIGENZA’, INNOVAZIONE’

Edilportale, 16 gennaio 2019

[A cura di Sergio Maset e Michele Polesana

Sondaggio Edilportale e Idea Tolomeo: i sistemi domotici possono migliorare l’autonomia di anziani e disabili ma occorre sviluppare la cultura.]

Uno dei prodotti mainstream di questo Natale 2018 è stato Amazon Echo, un dispositivo che con il suo alter ego Alexa porta nelle case l’intelligenza artificiale in una forma snella ed economicamente accessibile. E’ interessante osservare come il prodotto, così come il suo analogo Google Home, è stato posto infatti sul mercato contestualmente ad interruttori wireless offerti a prezzi nell’ordine di poche decine di euro. Non si tratta più dunque di domandarsi quando l’intelligenza artificiale sarà accessibile alla stragrande maggioranza delle famiglie, ma in che modo è concretamente possibile utilizzarla per semplificare la vita delle persone. È proprio su questi aspetti che si è concentrato un sondaggio on -line promosso da Edilportale in collaborazione con IDEA TOLOMEO[1].

Come cambia la domanda di domotica da parte dei clienti finali?

La prima parte del sondaggio[2] è stata dedicata ad una valutazione sulla domanda attuale e futura di sistemi domotici. Rispetto a sei diversi ambiti di applicazione sottoposti all’attenzione degli intervistati, è stata ritenuta molto o abbastanza elevata la domanda attuale per quattro di essi: la rilevazione e segnalazione di intrusioni (88%), il controllo dell’ambiente domestico (73%), l’ausilio alla mobilità e vita quotidiana per persone con disabilità e anziane (69%) e la prevenzione di eventi accidentali (67%). Non superano invece il 50% il controllo degli elettrodomestici (47%) e la segnalazione di incidenti domestici (41%). Emerge dunque una valutazione di prevalenza della domanda sulla dimensione della security (rilevazione e segnalazione intrusioni) prima ancora che della safety (prevenzione eventi e segnalazione incidenti).

Volgendo lo sguardo al futuro prossimo, la maggioranza degli intervistati si aspetta che cresca molto o abbastanza il ricorso alla domotica in tutti questi ambiti. L’attesa è di forte crescita di domanda per applicazioni funzionali al controllo dell’ambiente domestico, alla rilevazione e segnalazione di intrusioni e per l’ausilio alla mobilità e vita quotidiana per persone con disabilità e anziane.

Che cosa rappresenta la domotica per gli operatori?

Per ciascuno di questi ambiti è stato quindi chiesto agli intervistati quale fosse, tra alcuni aggettivi proposti, quello che meglio lo rappresentasse. Risultano essere due, in particolare, i termini maggiormente ricorrenti: “utile”, da un lato, e “rassicurante” dall’altro. Ecco dunque che l’aggettivo “utile” prevale per il controllo degli elettrodomestici (52%), l’ausilio alla mobilità e vita quotidiana per persone con disabilità e anziane (50%) e il controllo dell’ambiente domestico (39%). L’aggettivo “rassicurante” è invece più frequentemente utilizzato in relazione alla rilevazione e segnalazione di intrusioni (49%), alla prevenzione di eventi accidentali (45%) e alla segnalazione di incidenti domestici (44%).

È possibile approfondire l’analisi mettendo in evidenza quali termini si associno in modo più caratteristico, rispetto alla media complessiva, a ciascuno di questi ambiti. L’aggettivo “rassicurante” caratterizza specificatamente la rilevazione e segnalazione di intrusioni e la prevenzione di eventi accidentali (vicine tra loro), ma anche la segnalazione di incidenti domestici come le cadute. È possibile apprezzare inoltre come il termine “intelligente” si associ in modo più specifico al controllo degli elettrodomestici e dell’ambiente domestico. I termini “utile” e “gratificante” caratterizzano maggiormente l’ausilio alla mobilità e vita quotidiana per persone con disabilità e anziane.

Il grafico va letto guardando alle linee che congiungono i punti con l’origine degli assi (la coordinata 0,0). È l’angolo tra queste linee a determinare l’intensità del legame (della corrispondenza) tra ambiti e aggettivi: un piccolo angolo indica una forte corrispondenza.

È stato poi chiesto agli intervistati di associare liberamente un termine che si accompagni a “domotica”. Il 29% delle risposte ha riguardato elementi di immagine, con termini come “futuro”, “intelligenza”, “innovazione”; il 27% modalità e strumenti di applicazione come “automazione”, “controllo”, “connessione”; il 26% attese di risultato come “comfort”, “risparmio” “semplificazione”. Per un altro 4% la domotica richiama un aggettivo positivo (es. “smart”, “interessante”) e per l’8% un attributo negativo (es. “costo”, “complessità”). Nella sostanziale tripartizione delle risposte si coglie l’intensità delle attese intorno al fenomeno della diffusione dell’intelligenza artificiale nelle abitazioni: un insieme di technicalities dai forti contenuti sociali e simbolici.

In quali ambiti possiamo attenderci i maggiori risultati?

Il sondaggio ha dunque indagato, secondo la percezione degli intervistati, il contributo della domotica per diversi possibili obiettivi. Considerando solo le risposte “Molto” troviamo al primo posto il contribuire a migliorare il comfort delle abitazioni; al secondo la possibilità di migliorare l’autonomia delle persone anziane e disabili, seguita dall’aumentare la sicurezza della casa e dei beni in essa custoditi.

Le attese dei consumatori nei confronti della domotica, sempre secondo gli interpellati, si concentrano su “semplificare la vita quotidiana delle persone” (37%), seguita da migliorare il comfort delle abitazioni (32%) e, secondariamente, far risparmiare le famiglie (15%).

La domotica per l’autonomia delle persone anziane e con disabilità

Migliorare l’autonomia di anziani e disabili è quindi al contempo ai primi posti come obiettivo a cui la domotica può rispondere e tuttavia ritenuto ancora poco significativo circa le attese dei consumatori finali. Eppure L’Italia è uno dei Paesi più vecchi al mondo: l’indice di vecchiaia, che misura il rapporto tra la popolazione anziana (65 anni e oltre) e la popolazione più giovane (0-14 anni), è nel 2018 pari al 168,9% ovvero, come sottolinea Istat, il secondo più elevato su scala globale dopo il Giappone (200% nel 2015). Nel prossimo futuro, il quadro di una popolazione sempre più vecchia è destinato a rafforzarsi: secondo Istat la popolazione di 65 anni e più crescerà dall’attuale 22,6% fino al 32,1% nel 2040 e al 33,3% nel 2065 (con poco meno di un decimo della popolazione oltre gli 84 anni).

Al tema dell’invecchiamento si accompagna ovviamente quello della salute e c’è un dato, tra i tanti, che colpisce. Rispetto al rischio di incidente domestico gli anziani rappresentano una delle categorie più a rischio: secondo la rilevazione condotta da Istat nel 2017, 24 anziani su mille dichiaravano di aver subito un incidente domestico nei 3 mesi precedenti l’intervista, contro un dato medio, relativo alla popolazione di tutte le età, di 14 persone su mille. Un rischio che aumenta al crescere dell’età anziana, con le cadute a rappresentare la dinamica più ricorrente, e che è maggiore per le donne, per le quali si traduce inoltre in una maggiore gravità degli infortuni e maggiori limitazioni.

Pensando dunque alle applicazioni della domotica per consentire una maggiore autonomia delle persone anziane, gli intervistati sono quasi all’unanimità (95%) molto o abbastanza concordi che esse possano rappresentare un valido aiuto, con un 48% molto concorde. L’84% è molto o abbastanza concorde nel ritenerle tecnologicamente avanzate, il 61% nel ritenerle semplici da utilizzare. Non vi è invece accordo nel ritenerle accessibili da un punto di vista economico (solo il 35% è molto o abbastanza d’accordo) e conosciute da anziani e disabili (11%), con un 32% molto in disaccordo con questa affermazione.

Congruentemente con quest’ultimo punto, il 70% degli intervistati ritiene che per aumentare la diffusione della domotica in ausilio a persone anziane e disabili occorra soprattutto lavorare sulla domanda da parte dei consumatori, ad esempio facendo conoscere più approfonditamente i bisogni a cui può dare risposta la domotica.

La domotica: non rende più giovani …ma può aiutare ad invecchiare meglio.

Sembra dunque emergere dalle risposte degli intervistati uno spazio di mercato in cui i sistemi domotici hanno un elevato potenziale in termini di capacità di incidere positivamente sull’autonomia delle persone anziane e disabili, ma basse aspettative da parte dei consumatori finali. È fondamentale dunque lavorare tanto sui consumatori che sull’integrazione con la rete dei servizio sociali e sanitari territoriali, sviluppando cultura, politiche pubbliche e prassi amministrative e gestionali. L’Unione Europea stessa ha dato attenzione al tema della salute degli anziani e delle persone con disabilità facendone uno degli ambiti cui è dedicato Horizon 2020, e confermandolo anche per il periodo 2021-2027. Le soluzioni ICT non rappresentano certamente l’unica risorsa a cui fare riferimento nel ricercare delle soluzioni per la cura della fascia di popolazione in età più matura, ma come ricorda la European Innovation Partnership sull’invecchiamento attivo e in buona salute esse possono aiutare le persone anziane ad avere uno stile di vita indipendente ed estendere gli anni di vita autonoma.


[1] Idea è una società che opera nel campo della ricerca sociale ed economica e fornisce consulenza ad aziende, associazioni, istituzioni ed enti locali, per la valutazione e il monitoraggio di politiche pubbliche, l’analisi di impatto economico e sociale e indagini di mercato.

[2] Il sondaggio si è basato su una rilevazione on line, tramite la piattaforma EDILPORTALE. Hanno risposto 138 operatori e professionisti, tra cui ingegneri (20%), architetti (16%), geometri (16%), periti industriali (12%) e altre tipologie di lavoratori distribuiti su tutto il territorio nazionale.

GIOVANI, LE COMPETENZE INDIVIDUALI NON BASTANO

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su VeneziePost – 15 settembre 2017]

Un’indagine realizzata per la Provincia di Trento fa emergere un dato interessante: i giovani, se da un lato ritengono più utile per il loro futuro il rafforzamento delle competenze individuali, dall’altro lato quanto più scelgono di partecipare alla vita sociale organizzata, tanto più riescono a guardare positivamente alla loro dimensione lavorativa e professionale futura.

Il Trentino tra i territori del Nordest è quello che, insieme all’Alto Adige, è cresciuto di più demograficamente; in particolare è riuscito, a differenza di altre regioni del Nord Italia, a esprimere una crescita naturale con un tasso di natalità superiore alle altre. Ciononostante, anche nelle due province autonome si osservano fenomeni di de-giovanimento. Ponendoci di fronte ai fenomeni di crisi e di discontinuità evidenziatisi in quest’ultimo decennio e guardandoli secondo la prospettiva delle politiche per la famiglia, è importante dunque cercare di comprendere se, e in che modo, il venir meno di una serie di certezze in􀃥uenza il processo di autonomizzazione dei giovani.

Partendo dall’ipotesi che l’incertezza rappresenti un tratto caratterizzante di questa fase storica, e che richieda in qualche modo di essere governata da ciascuno, una domanda sensata è la seguente: quali sono gli elementi che i giovani ritengono essere un valido aiuto per affrontare il loro futuro, renderli più fiduciosi di fronte al mercato del lavoro e sereni nell’avviare a loro volta un percorso di genitorialità.

Proprio per approfondire queste dinamiche l’Agenzia per la famiglia, la natalità e le politiche giovanili della Provincia Autonoma di Trento ha promosso un’indagine su un campione di 360 giovani trentini di età compresa tra i 19 e i 35 anni. La ricerca ha consentito di evidenziare come, negli ultimi 10 anni, per i giovani trentini siano aumentate le condizioni ritenute indispensabili per poter uscire dalla famiglia e andare a vivere da soli: non solo un reddito sufficiente a mantenersi, ma anche la stabilità del lavoro e poi il sostegno economico della Provincia, la casa di proprietà…

In qualche modo i giovani nel 2016 sembrano porsi, e richiedere, maggiori garanzie prima di poter procedere a questo passo di quanto non fosse per i loro coetanei del 2006. E ciò è tanto più vero se si confronta il bisogno di certezze che viene espresso da quanti vivono ancora con i genitori rispetto a quanti vivono già da soli, con una sopravvalutazione del bisogno di garanzie e rassicurazioni. Insomma, l’indipendenza vista dalla finestra della casa paterna fa più paura di quanto non faccia vivendola direttamente. In tale contesto è evidente che la fiducia circa la possibilità di trovare un lavoro sufficiente per mantenersi da soli gioca un ruolo fondamentale: se ritengo che non troverò un lavoro, di fatto non potrò mai andare a vivere per conto mio. Più sono negativo su quel fronte, più sarò pessimista circa la possibilità di potermi realizzare autonomamente. La situazione paradossale, dunque, è che, in una fase in cui sono messe in discussione determinate certezze macroeconomiche, si accresce la fame di rassicurazioni, con il rischio però di generare una crisi di fiducia. Quali sono i punti di forza del Trentino che maggiormente contribuiscono al benessere delle persone? Nella percezione dei giovani al primo posto vi sono la Provincia e il sistema della formazione superiore e universitaria, seguiti poi dalle reti familiari, comunitarie e associative. Un risultato certamente positivo per la realtà trentina e che rende conto dell’impegno dell’amministrazione sul territorio.

Tuttavia, in una prospettiva comparata, è interessante guardare ad elementi che in qualche modo rimandano a fattori generali, superando la specificità. L’analisi in questo senso ha consentito di comprendere l’utilità attesa dai giovani di una serie di fattori: fattori che consentono il rafforzamento delle competenze individuali, fattori che realizzano una partecipazione all’ecosistema, e fattori relativi all’alimentazione della propria sfera affettiva e amicale.

Tutte le dimensioni proposte, ad esclusione dell’essere membro attivo della propria parrocchia e partecipare attivamente alla vita politica, sono ritenute da più di metà dei giovani trentini utili al proprio futuro. Tra queste, sono ritenute utili da almeno il 90% dedicare tempo e attenzione ai propri familiari (96%), migliorare la conoscenza delle lingue straniere (95%), dedicare tempo e attenzione agli amici (91%) ed essere sempre aggiornato sulle iniziative e opportunità della provincia. Migliorare la conoscenza delle lingue straniere è il fattore che raccoglie la più elevata percentuale di risposte molto positive, con un 80% seguito da dedicare tempo e attenzione ai propri familiari (77%). Superiori a 3/4 di risposte complessivamente positive sono anche continuare a studiare e migliorare le proprie competenze (87%), impegnarsi attivamente nel paese o quartiere (83%), apprendere forme di risparmio o investimento finanziario (77%) e apprendere gli strumenti per avviare un’attività imprenditoriale (76%).

Partecipare attivamente ad un’associazione si mantiene ancora al di sopra del 50% di risposte positive (68%), mentre essere membro attivo della propria parrocchia e partecipare attivamente alla vita politica sono giudicati abbastanza o molto utili per il proprio futuro rispettivamente dal 39% e dal 38% dei giovani.

Apparentemente nulla di particolarmente innovativo: famiglia e competenze come fattori chiave. Tuttavia, se si analizzano questi risultati ponendoli in relazione con la fiducia sul trovare in futuro un lavoro emerge che chi attribuisce importanza alla partecipazione all’ecosistema (organizzazioni, associazioni di volontariato, pro-loco e finanche la parrocchia) è anche tendenzialmente più fiducioso sul suo futuro. Una analisi di regressione dei tre macro fattori (competenze individuali, rete affettiva, partecipazione) sulla fiducia circa la possibilità di trovare un lavoro che consenta una vita autonoma ci dice proprio questo: i giovani, se da un lato ritengono più utile per il loro futuro il rafforzamento delle competenze individuali, dall’altro lato quanto più scelgono di partecipare alla vita sociale organizzata, tanto più riescono a guardare positivamente alla loro dimensione lavorativa e professionale futura.

Il tema merita ovviamente ulteriori approfondimenti. Tuttavia, la ricerca restituisce di per sé un’interessante prospettiva di lavoro e invita a ragionare sul benessere di una comunità non solo dalla prospettiva delle competenze individuali di cui si dotano i singoli, ma anche da quella del capitale sociale di cui gli individui, attraverso la partecipazione attiva, sono al contempo creatori e beneficiari. L’idea di fondo su cui riflettere è che l’incertezza non può trovare risposta in un continuo ed esclusivo accrescimento della dote individuale di competenze secondo l’equazione “più competizione globale, più incertezza, più competenze”. Né, tanto meno, la risposta può arrivare dal ripiegamento affettivo intergenerazionale. Emerge invece la domanda forte di una consapevole partecipazione, che relativizzi il senso di solitudine e di inadeguatezza di fronte ad un contesto globale complesso e incerto e rafforzi l’esperienza di far parte di una comunità di destino. Il terreno di gioco della politica, della rappresentanza e dei corpi intermedi.

L’EDILIZIA? SI RILANCIA CON LA MANIFATTURA

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su VeneziePost – 11 Dicembre 2014]

Sono di oggi i dati che indicano il continuo deterioramento del comparto dell’edilizia in Veneto, alimentando il dibattito su come riattivare il mercato immobiliare. Una discussione che contiene al suo interno due grandi mainstream: la qualità paga sempre, ma cosa intendiamo per qualità? La ricerca dell’elemento di distinvità a ogni costo, in termini di materiali e soluzioni avanzate, non è detto che si collochi nell’ambito dell’ottimale. L’altro elemento che torna sempre gioco in questo contesto è l’edilizia sociale, non più popolare ma sostenibile e accessibile, e la domanda che ritorna è: come faccio ad avere delle abitazioni a un prezzo più basso?

E’ almeno dal terremoto dell’Aquila che si ripete come un mantra la storia delle case a 1000 euro al metro quadro. L’esperienza del low cost nell’edilizia, almeno in Italia, appare complessivamente abbastanza noiosa. È evidente che gran parte del ‘low cost’ è stato creato agendo su logiche fondiarie ovvero sul valore dell’area; in alcuni casi edificando in ambiti decentrati, in altri attraverso il calmieramento dato da cessione di lotti o fabbricati di proprietà pubblica.

Per vivacizzare il mercato la questione non è tanto quella di individuare aree a basso prezzo ma ridurre sensibilmente i costi complessivi di costruzione. Da questo punto di vista è abbastanza evidente che non si tratta di ricercare tecnologie sulla frontiera dell’innovazione, quanto di muoversi verso un aumento della quota di lavoro realizzata all’interno di stabilimenti manifatturieri e ridurre quella di cantiere. Con un ricorso maggiore alla prefabbricazione. Come spesso accade quando non si sa da che parte affrontare un problema si tende a chiamare in causa fattori culturali: «le famiglie devono cambiare mentalità, i progettisti devono cambiare metodo, i costruttori devono riorganizzarsi». Questa prospettiva difficilmente porta da qualche parte. Se si tratta di introdurre un nuovo paradigma questo non può che avvenire attraverso una vera e propria competizione. E il concetto di competizione ruota intorno agli attori, alle loro visioni e interessi. La domanda dunque è: chi sono gli attori?

Se diamo per buono l’assunto che i costi di costruzione si riducono attraverso un ribilanciamento tra fasi di stabilimento e fasi di cantiere allora dobbiamo concludere che l’attore primo di questa competizione è da ricercarsi nell’ambito della manifattura, mentre i costruttori dovranno essere in grado di interpretare e trarre vantaggio da questo nuovo paradigma. Un processo di questo tipo darebbe sicuramente un senso maggiormente tangibile al concetto di filiera dell’abitare, individuando concretamente in questo binomio – manifattura e costruttori – il motore per agire nell’ambito del sustainable living. Per gli architetti ci sono ampi margini di sperimentazione di un linguaggio moderno puntando sulla semplificazione nella scelta dei materiali.

Da questo punto di vista, per quanto possa far arricciare il naso a qualcuno, la libreria Billy di Ikea costituisce un esempio paradigmatico per un ragionamento che vuole rivolgersi a un mercato accessibile ad una platea allargata dei consumatori. In ultima considerazione la sfida che il binomio – manifattura e costruttori – dovrà affrontare sarà quella di costruire fabbricati residenziali ambientalmente efficienti a basso costo e che prevedono il riciclo dei moduli abitativi per convertirli a nuovi usi. Non si tratta certamente di edificare case green di lusso, come nel caso del quartiere Le Albere di Trento, che rimangono inaccessibili ai più, bensì di costruire case sostenibili da piu punti di vista – ambientale, sociale ed economico – e la cui collocazione sul mercato incontrerà le esigenze di un pubblico più vasto.

OPPORTUNITÀ E RESISTENZE NEI NUOVI CONTESTI ECONOMICI E PRODUTTIVI

[di Sergio Maset

gennaio 2014,  in Quaderni della Fondazione Francesco Fabbri, 2, 2014, pp.24-28, Mimesis, Milano]

E’ necessario che una riflessione complessiva sulla crisi si ponga criticamente l’obiettivo di mettere in discussione il modo stesso con cui ci si riferisce diffusamente a questo concetto e provi a porre le condizioni per la sua definitiva sostituzione con quello di trasformazione. Non si tratta, è evidente, di realizzare un esercizio linguistico, ma di superare definitivamente una serie di luoghi comuni che hanno accompagno in questi anni la trattazione sulla crisi. Impropriamente si usa dire “effetti della crisi”, riferendosi a disoccupazione, calo del Pil, diminuzione della domanda interna, contrazione del mercato immobiliare e via discorrendo. Perché impropriamente? Perché la crisi non è una causa, bensì un effetto. E’ l’effetto di una serie di trasformazioni in atto da parecchio tempo, ben prima dell’inizio convenzionale della crisi finanziaria internazionale, il 15 settembre 2008, giorno del fallimento della banca americana Lehman Brothers. E’ indubbio che in questi cinque anni, la “crisi” ha rappresentato un utile contenitore fenomenologico all’interno del quale sono stati riordinati tutta una serie di incompiute, colli di bottiglia, debolezze strutturali dell’Italia (e non solo dell’Italia). Consideriamo queste incompiute come gli elementi che hanno condizionato la possibilità per il paese di “cavalcare la tigre” di una serie di mega fenomeni.

Solo per ricordare alcuni mega trend che hanno impattato su tutte le economie della vecchia Europa basta pensare a quanto è avvenuto con la modifica dell’ordine geopolitico mondiale dopo il crollo del muro di Berlino. E’ curioso come ci si scordi rapidamente anche del passato più prossimo: la delocalizzazione verso i paesi a più basso costo del lavoro e minor pressione fiscale era incominciata ben prima del 2008. La Cina e il Sud Est asiatico sono poi da parecchi anni paesi ad altissimo tasso di sviluppo economico, paesi di sbocco commerciale ma soprattutto per la produzione a basso costo del lavoro e che hanno spazzato via la convenienza a produrre tutta una serie di prodotti (finali o intermedi che fossero) in Italia e nel resto della vecchia Europa. Basti a rinfrescare la memoria, citare quanto avvenuto negli ultimi due decenni nel comparto tessile.

Un altro mega fenomeno che prosegue da anni è connesso alla diffusione massiva dell’accesso a internet, che di fatto ha modificato (e continuerà a modificare) il commercio e i servizi. Quante “crisi” ci sono state negli anni, ad esempio, nelle agenzie di viaggi, nelle librerie, nei negozi di dischi? Sono state drammatiche, ma sono avvenute. Ancor prima l’office automation aveva spazzato via anche settori ad elevata professionalità. Il riferimento non è alle dattilografe (viene da ridere a usare adesso quel termine, ma c’erano ed erano tante) ma ad alte professioni apparentemente al riparo da ogni possibile shock. Si pensi che ancora agli inizi degli anni ’90 tutte le presentazioni aziendali (quelle che adesso si confezionano con programmi come power point) venivano costruite da tecnici super specializzati che le disegnavano praticamente a mano e le montavano come fossero dei film. Quanto deve essere stato drammatico scoprire che da un giorno all’altro il loro mestiere non valeva più nulla. Probabilmente proprio chi aveva fatto dell’eccellenza manuale il suo punto di forza si è trovato molto peggio di chi, magari più approssimativo nella composizione manuale ma più abile nell’ideazione concettuale, ha trovato nei software una opportunità per produrre più rapidamente e con costi inferiori. Un esempio diametralmente opposto, ma non meno radicale, riguarda ciò che è avvenuto con la diffusione dei sistemi di esazione automatica ai caselli autostradali: una intera categoria di lavoratori ha smesso di esistere.

Le trasformazioni avvengono di continuo e sarebbe interessante riflettere sul perché alcune accadono senza che nessuno se ne preoccupi più di tanto mentre altre vengono rappresentate efficacemente come una sorta di fine del mondo. Mentre per anni ci si è interrogati sull’opportunità o meno di concedere orari di apertura prolungati alle grandi strutture di vendita, si sono lanciati strali contro i centri commerciali e sono state versate lacrime sulla scomparsa delle piccole botteghe alimentari, interi settori sono stati molto sommessamente spazzati via dal commercio online.

Ancora una volta, tuttavia, per rispondere alla sfida, occorre guardare alle trasformazioni indotte e non limitarsi al conteggio delle perdite subite. Questo perché le trasformazioni modificano equilibri, rapporti forza e, per quanto possa suonare retorico, creano opportunità. Nel mercato librario il commercio online sta spingendo le librerie a diventare qualcos’altro: luoghi di aggregazione con reading e concerti, spazi ibridi in cui tra gli scaffali compaiono divani e caffè. Certamente in questo caso a intraprendere la trasformazione sono stati pochi soggetti con maggiore capacità di inventiva e, necessariamente, economica.

Nel settore dell’elettronica e della vendita degli elettrodomestici i piccolo negozi sopravvissuti al confronto competitivo con le grandi catene e al commercio elettronico si stanno caratterizzando come punti vendita in cui comprare, assieme al prodotto, assistenza per manutenzioni, riparazioni, consigli, più difficilmente reperibili nei grandi store. Nel settore alimentare, le grandi catene stanno investendo sulle medie strutture in cui sono possibili margini maggiori rispetto all’ipermercato da volantino sottocosto e in cui, assieme al prodotto, viene venduta sempre più accoglienza e attenzione per il cliente da parte di addetti formati e addestrati a questo preciso scopo e molti di questi sono giovani e giovanissimi.

Tra i mega fenomeni non si può non considerare la costituzione del mercato unico europeo e l’istituzione dei tassi fissi (e poi l’euro), che come effetto immediato hanno bloccato la possibilità di agire sulla leva dei cambi per modificare la convenienza ad acquistare dall’Italia. Questo ha sicuramente tolto ad alcuni tipi di produzione la possibilità di competere globalmente agendo sulla leva del cambio ma, almeno per chi ha saputo coglierne l’opportunità, ha migliorato tutto i settori connessi all’importazione. Inoltre l’Unione Europea, con tutto il suo sistema di regole, ha anche creato nuovi prodotti, e nuovi mercati per servizi prima inesistenti. Sono ormai quasi dieci anni che nei documenti europei si fa riferimento ai lead market, ambiti di prodotto, ricerca e servizi che avrebbero avuto negli anni successivi un forte sviluppo. Tra questi tutte le tecnologie per l’efficientamento energetico e la riduzione della produzione di gas serra. Tempi, modi e standard sono stati concertati a livello europeo ed è stata la definizione di regole ad aver creato quell’enorme mercato della green economy. Dagli ingegneri, ai produttori di caldaie, pannelli isolanti, serramenti fino agli idraulici e installatori, si provi a chiedere a questi se le politiche europee sono state da questo punto di vista un bene o un male.

Come sempre accade ogni politica genera clientes. Basti pensare, ancora, a che cosa ha rappresento per il mercato dei servizi l’introduzione di norme sulla verifica e certificazione della sicurezza nei luoghi lavoro. Nelle fasi iniziali di applicazione di queste nuove norme si possono ritrovare almeno tre letture: un segno concreto di maturazione e di civiltà di una società, un aggravio delle procedure e dei costi a cui sono soggette le imprese, un grande nuovo mercato per tutti quanti vendono servizi e prodotti per la sicurezza (segnaletica, estintori, verifiche, ispezioni, formazione, aggiornamento, ….).

Le trasformazioni, anche drammatiche, avvengono dunque di continuo, molto più di quanto comunemente si pensi. L’idea di poter individuare un prima e un dopo e dunque la convinzione che la società sia sostanzialmente statica e che solo in pochi definiti momenti vede dei punti di cesura, è sostanzialmente errata. Non perché non vi siano punti di cesura ma perché, al contrario, ve ne sono tantissimi e di continuo. Provare a resistervi è come cercare di costruire tante piccole dighe di fango e detriti su un torrente in piena: ad un certo punto inevitabilmente cedono e la corrente va ad impattare sugli argini con ancora più forza e pressione. Può forse sembrare romantica come immagine, ma in questo momento, per fronteggiare una corrente impetuosa non ci si può permettere salti e sbarramenti solidi: servono uomini capaci su barche più robuste. Per quanto riguarda il commercio estero, dopo il crollo delle esportazioni conosciuto tra 2008 e 2009 (-21,5%), nel triennio successivo il Veneto ha visto il proprio export crescere a un ritmo del 9% annuo che ha riportato l’export regionale al livello pre-crisi, ed anzi a sopravanzarlo del 2% (50 miliardi di euro nel 2008, 51 miliardi nel 2012)[1].

È utile tener presente che nel corso degli ultimi cinque anni sono occorse due diverse fasi recessive, di cui una tuttora in atto, caratterizzate però da differenti dinamiche. Nella prima ondata recessiva, coincidente grosso modo con il periodo 2008-2009 (shock finanziario internazionale), il dato più evidente è la contemporanea contrazione della domanda estera (un calo particolarmente repentino), dei consumi finali e degli investimenti. Successivamente, nel corso del 2010, la variazione della domanda interna è tornata di segno positivo e il calo della domanda esterna si è fatto più contenuto. Nel 2011 si è però verificata un’inversione radicale di segno, con una ripresa delle esportazioni incapace tuttavia di compensare un calo consistente della domanda interna (consumi finali, investimenti e scorte) e della spesa pubblica che ha determinato un ulteriore brusca diminuzione del Pil. A partire da metà 2011 il numero di disoccupati ha iniziato una fase di intensa crescita che sembra rallentare solo nel corso del 2013, mentre il numero di occupati ha sostanzialmente tenuto sino a metà 2012 per poi calare bruscamente.

Che cosa c’è dunque di così particolare in questa fase che ha portato a parlare di grande crisi? Essenzialmente il fatto che vi è stato da prima uno shock finanziario globale e successivamente, senza soluzione di continuità, una crisi (questa nel vero senso del termine) di fiducia internazionale nell’Italia connessa alla capacità del paese di far fronte al debito pubblico con il conseguente aumento del tasso di interesse sui titoli di stato. Questa seconda fase, a cui si è cercato di porre rimedio con una riduzione della spesa pubblica, ha esacerbato la tensione connessa alla trasformazione ‘fisiologica’ del sistema produttivo che già doveva riorganizzarsi dopo lo shock finanziario internazionale e gli effetti che questo ha prodotto sul sistema bancario e sul sistema di regole per la concessione di prestiti a privati e aziende.

Le Sfide per la trasformazione del sistema economico-produttivo

La storia che i dati e le considerazioni sin qui esposti raccontano non è dunque la storia di una crisi congiunturale. È piuttosto il racconto di una trasformazione di sistema, che per essere affrontata richiede l’abbandono di un certo tipo di retorica da “resistenza alla crisi” e di approntare una profonda ristrutturazione del sistema produttivo e dei servizi privati e pubblici. Nello spazio ristretto di questa trattazione, sono tre gli assi su cui è pensabile che si giocherà la sfida della competitività del sistema economico italiano.

Le opportunità – primo asse – proverranno da un approccio in cui al Made in Italy si accompagni una nuova capacità di gestire in modo intelligente catene del valore globali, acquisendo materie prime e prodotti intermedi sui mercati internazionali ma mantenendo il controllo della catena del valore al fine di realizzare in house quelle fasi della produzione a maggior valore aggiunto. È importante osservare quanto avvenuto in questo ultimo decennio tra Italia e Germania rispetto ad alcune grandezze macroeconomiche, dal momento che una loro lettura fornisce alcuni interessanti spunti di riflessione anche in relazione alle dinamiche osservate in precedenza.

Un dato da considerare riguarda certamente il diverso andamento della popolazione e degli occupati rispetto a quello del prodotto interno lordo generato dai due Paesi. A fronte di una crescita sostanzialmente a zero della popolazione tedesca dal 1995 al 2011, il Pil della Germania è cresciuto del 25%. La popolazione italiana è invece aumentata nello stesso periodo del 7%, a fronte di una crescita del Pil del 15%. Ancor più interessante il confronto in Germania tra l’andamento del Pil e l’evoluzione del numero di occupati. Se fino al 2000 la crescita del Pil sembra andare di pari passo con quella del numero di occupati, a partire da quell’anno le due curve presentano un andamento difforme, con il prodotto interno lordo che continua a crescere e il numero di occupati che tende a stabilizzarsi. Questo a differenza di quanto avviene in Italia e, nel dettaglio, anche in Veneto, dove l’andamento del Pil ha seguito, con buona approssimazione e su tutto il periodo, l’andamento del numero di occupati.

Un ulteriore confronto riguarda l’andamento dell’indice di propensione all’export, calcolato come rapporto tra il valore delle esportazioni e il Prodotto interno lordo. Mentre in Germania nel periodo 1995-2011 questo indice cresce progressivamente con un’intensità simile alla crescita del Pil (con un effetto moltiplicatore dell’export nella generazione del Pil), in Italia resta tendenzialmente stabile lungo l’intero periodo, con oscillazioni contingenti.

Rileva inoltre il fatto che, in un quadro di intensa crescita del Pil, in Germania la quota di valore aggiunto generato dalla manifattura sul totale dell’economia è rimasto stabilmente intorno al 23%. Una dinamica anche in questo caso diversa si evidenzia invece in Italia, dove la quota di valore aggiunto generata dal manifatturiero si è ridotta dal 22% del 1995 al 17% del 2011. Va a questo proposito osservato che la quota di valore aggiunto generato dalla manifattura, in Germania, è rimasta stabile anche a fronte di – anzi, probabilmente proprio grazia a – una crescente (nel periodo) incidenza dell’import nella composizione del valore della produzione industriale tedesca. L’interpretazione che se ne può dare sembra essere una elevata capacità, da parte del sistema produttivo tedesco, di governare la produzione di valore anche con un maggiore ricorso all’outsourcing internazionale. Va infine evidenziato il peso delle occupazioni service-related nella manifattura, ovvero di quelle professioni (manager, professionisti, tecnici, impiegati d’ufficio, impiegati nei servizi e nella vendita) che pur lavorando in ambito manifatturiero non sono direttamente impiegate nella produzione manuale bensì in servizi connessi a questa. L’incidenza di tali professioni è nel 2012 del 48,6% in Germania e del 37,7% in Italia.

Le sollecitazioni derivanti da queste considerazioni – per quanto solo accennate – suggeriscono di provare a leggere la relazione tra dimensione di impresa e competitività invertendo l’ordine dei fattori. Certamente la riprogettazione dei processi produttivi richiede adeguate risorse finanziarie e competenze interne, generalmente appannaggio di imprese di media se non grande dimensione, tuttavia è la sua effettiva implementazione (e non la dimensione di partenza in quanto tale) a influenzare il potenziale di crescita delle aziende manifatturiere. In questa prospettiva (1) maggiore contenuto tecnologico delle produzioni, (2) maggiori contenuti terziari nelle attività produttive, (3) maggiore qualità e specializzazione della forza lavoro, (4) maggiore controllo delle catene di approvvigionamento e distribuzione internazionale e infine (5) crescita dimensionale delle imprese rappresentano sempre più un quadro unitario di trasformazione delle economie regionali più che fattori separatamente perseguibili.

La sfida è dunque quella di approcciarsi in modo nuovo non solo alla commercializzazione dei prodotti ma ai processi produttivi, guardando alle best practice realizzate dal vicino di capannone così a quelle del produttore tedesco o asiatico, facendo scouting di possibilità produttive sul mercato internazionale, ripensando l’ingegnerizzazione dei processi produttivi. È un modo diverso di pensare e fare la fabbrica, popolata non più solo di operai ma di una varietà di figure in grado di gestire catene del valore globali. Indipendentemente dal fatto che la trasformazione produca una variazione del numero di addetti complessivamente occupati nel settore manifatturiero, ciò che per certo dovrà determinarsi sarà una crescita della capacità di generare valore aggiunto. Dovrà essere rinnovato anche il legame tra sistema produttivo e assetto infrastrutturale. Sempre più critico sarà l’inserimento dei luoghi di produzione nell’ambito di nodi funzionali prossimi alle infrastrutture. Non solo perché, data l’estensione su reti globali dei rapporti di fornitura e vendita, è sempre più cruciale la localizzazione ai nodi delle reti fisiche, ma anche perché è nei pressi di questi che si localizzano funzioni terziarie rare e di rango elevato.

Se finora l’attenzione si è appuntata sull’ambito manifatturiero, il settore terziario – secondo asse – non può ritenersi escluso da una necessità di innovazione e re-ingegnerizzazione. Siamo sicuri che oggi il settore terziario italiano (compresa la sua componente intellettuale) si trovi sulla frontiera competitiva? Siamo sicuri che se non ci fosse una barriera linguistica non si affaccerebbero sul mercato dei servizi anche fornitori stranieri? E siamo sicuri che, se potessero, le piccole imprese non si rivolgerebbero all’estero per i servizi terziari? Non solo al fine di migliorare le propria performance, dunque, (si pensi, come esempio, alle difficoltà sperimentate dalle banche locali per restare sul mercato), ma anche perché la capacità stessa della manifattura di rispondere alle sfide che le sono richieste dipenderà anche dalla capacità di rinnovarsi da parte del settore terziario. A questo appartiene infatti una serie di servizi – di progettazione, supporto all’import-export, sicurezza, infrastrutturazione, trasporti, credito, assicurazione – che pur non rientrando nell’ambito della produzione manifatturiera sono funzionali a questa, e concorrono anzi in modo determinante a massimizzare il valore aggiunto. Anche nel terziario serviranno maggiori dimensioni e una maggiore strutturazione.

Un terzo asse riguarda, infine, il sistema regolativo. Generalmente, e spesso a ragion veduta, la burocrazia italiana viene indicata come uno dei fattori di ritardo del Paese. Un fattore effettivamente critico ma che può essere fatto rientrare, a ben vedere, nella logica di efficienza del settore terziario di cui sopra. Ciò che invece si vuole qui porre in evidenza riguarda il fatto che anche leggi, regole e assetti istituzionali dovranno essere orientati a questo stesso sforzo di trasformazione e spinta in avanti. Gli adempimenti non sono solo una questione di tempo ma assumono particolare rilevanza nel determinare la visione dell’amministrazione pubblica come di un leviatano che si pone di traverso allo sviluppo del Paese.

C’è un quarto asse, in questa grande trasformazione, che richiederebbe di essere affrontato. Il condizionale è d’obbligo non per incertezza sulla sua rilevanza quanto per la complessità dello stesso e tuttavia non può esserne omessa quantomeno la citazione. Il riferimento è al dualismo che da sempre caratterizza l’Italia, tra nord e sud. L’auspicio è che il suo venir meno nell’agenda partitica posso consentire invece una forte riproposizione nei programmi istituzionali, evitando, almeno sì in questa fase di contrazione della spesa pubblica, di tentare di risolverla con logiche di sussidiarietà.


[1] Fonte: elaborazioni su dati Istat Coeweb.