Lauree troppo elevate o troppi lavori a bassa qualificazione: quale retorica preferire?

[di Sergio Maset]

La vignetta è carina ma proviamo a non farne la solita mielosa lamentela dei giovani che si laureano e poi fanno lavori che potrebbero fare anche senza laurea. Il cappello di McDonald sta bene anche durante gli studi perché indossarlo aiuta a capire che oltre al titolo di laurea nel lavoro ci vuole passione e voglia.


Durante l’università, come tanti altri ragazzi, ho avuto dei contratti di lavoro da 150 ore con l’ente allo studio di Trento: piccoli contratti con l’Opera Universitaria per tirare su qualche lira per le sigarette. Nulla di confrontabile con l’impegno di un McDonald. Ma qualcosa però l’ho imparato anche lì. Mi è capitato di imbustare riviste, attaccare etichette, fare l’operatore video al cineforum, il custode ad un centro polifunzionale. Durante uno di questi contratti partecipai al programma per orientatore nelle scuole superiori. Ci formarono e poi ci mandarono a presentare i nostri corsi di laurea ai ragazzi delle classi quinte. Io ero sempre entusiasta quando presentavo la mia facoltà, senza minimizzare il fatto che sociologia – perlomeno in quegli anni e a Trento – aveva una forte impronta statistica e metodologica e richiedeva di avere un minimo di competenze matematiche per riuscire al meglio.
Ricordo che alla fine di uno di questi incontri una professoressa che aveva seguito la mia presentazione venne da me e mi disse: “Ê stata una presentazione molto bella, avresti fatto venire voglia anche a me di iscrivermi se non fosse che io mi sono laureata in sociologia ma non ho trovato il lavoro che c’era scritto nella guida. Non dovreste dire che si trova lavoro!”. “Quale lavoro non ha trovato?” le chiesi allora. “In Provincia” mi rispose. Penso che quella persona avesse studiato sociologia come tanti facevano e fanno tuttora: scegliere una laurea tra quelle meno complicate per potersi chiamare dottore. Lei il lavoro l’ha trovato ma non quello che aveva in mente. Forse perché più che un lavoro aveva in mente un posto di lavoro. Il problema poi è che è andata ad insegnare, una professione, quello sì complessa e impegnativa che, sarebbe meglio, non fosse un ripiego.

Morale della favola
O sei mosso dalla passione o sei mosso dall’ambizione, ma qualcosa deve muoverti e non sarà certo il titolo di studio a trovare il lavoro al posto tuo. Altrimenti ti tocca prendere quello che arriva.

La laurea, per molte posizioni, non è un plus ma solo la base di partenza: il plus ce lo deve mettere il singolo. Si può certo discutere se tutto ciò abbia senso, ma la questione resta. Alcuni per emergere ci mettono passione, capacità e determinazione, altri un’università prestigiosa, altri ancora le conoscenze di parenti e amici. Qualcuno tutte e tre le cose. La buona notizia è che c’è spazio anche per chi ci mette solo la prima delle tre: passione, capacità e determinazione. Il problema è che magari emigra e la fortuna – il fattore C da non dimenticare mai – la trova altrove. Ma anche questa è un’altra storia.

Fuga dal lavoro? No. Sono gli effetti del post covid, di un aumento della domanda e della naturale aspirazione dei giovani a realizzarsi

[di Sergio Maset e Andrea Mamprin

L’articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2022 su VeneziePost]

È corretto interpretare la crescita delle dimissioni volontarie riscontrata negli ultimi trimestri ipotizzando il venir meno, dopo il Covid, dell’importanza che i lavoratori assegnano alla stabilità del lavoro dipendente?

La risposta potrebbe essere assolutamente tranchant. L’analisi dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro di Veneto Lavoro (Bussola, aprile 2022) è pienamente condivisibile e generalizzabile anche ad altre regioni ad alto tasso di occupazione: la propensione dei lavoratori di trovare occasioni di lavoro più soddisfacenti si era pressoché bloccata nel periodo del lockdown a causa della assoluta incertezza presente in quel momento. Il fenomeno che stiamo osservando altro non è che la somma di dimissioni normalmente presenti nel mercato del lavoro a cui si sono aggiunte le dimissioni “posticipate” dovute al lockdown. Dunque, prima di tutto, vi è un fatto quantitativo dato da un mercato che dopo l’inaudito shock del Covid, che ne aveva paralizzato i meccanismi, è entrato in una fase nuova in cui la ripresa della mobilità si accompagna ad alta incertezza sui cambiamenti del lavoro.

Vi è poi spesso la tendenza ad attribuire il supposto maggior disincanto nei confronti dell’occupazione dipendente ai lavoratori giovani, ipotizzando che soprattutto in loro venga meno l’attrazione per la stabilità, riconducendola ad un’ipotetica ridefinizione della scala delle priorità post Covid. Rispetto a questa conclusione si rilevano delle perplessità per almeno due ordini di ragioni. Primo, le traiettorie iniziali nel mercato del lavoro sono frutto di una naturale incertezza dell’età giovanile, in cui si sperimentano delle scelte anche in funzione delle proprie aspettative. (Misure n.110, Veneto Lavoro, aprile 2022). Gli esordi lavorativi sono infatti tipicamente caratterizzati da elevata instabilità a prescindere dal Covid.

Secondo, non bisogna cadere nell’errore di credere che per un giovane il fatto di cambiare un posto di lavoro per un altro sia sinonimo di basso valore assegnato al lavoro e che la minore propensione dei giovani alla stabilità sia un effetto della pandemia. In realtà è vero l’esatto contrario. In un’indagine del 2015 svolta su un campione rappresentativo di 400 cittadini residenti in Veneto andammo ad indagare come cambiavano tra le diverse generazioni le attese circa il lavoro. Quello che emergeva era che i giovani con meno di 30 anni vedono nel lavoro prima di tutto uno strumento di affermazione delle proprie aspirazioni, in misura doppia rispetto a quanto ritengono i loro colleghi più grandi. Danno invece molta meno importanza agli elementi di stabilità in sé (“basta che sia un lavoro” e “basta che sia un posto fisso”) e di conciliazione del lavoro con gli altri interessi o impegni, come ad esempio la famiglia. Per chi è più avanti con l’età, infatti, diventa in generale più rilevante l’attesa che il lavoro sia un fattore di stabilità in quanto tale più che di affermazione di sé.

Le posizioni di lavoro dipendente risultano in crescita in questo trimestre, iniziando ora a riagganciare un trend pre-covid. Si tratta però di tendenze ancora molto fluide e al momento, come evidenziato anche dall’Istat a livello nazionale (Nota Trimestrale, 22 marzo 2022), sono spinte molto dai settori delle costruzioni e dal recupero del turismo e ristorazione. Entrambi i comparti sono, per ragioni diverse, in una condizione di forte alterazione. Per quanto riguarda le costruzioni rileva evidentemente la spinta data dai bonus edilizi (facciate e 110% in primis) per i quali la bolla generata dagli incentivi ha portato ad un fenomeno di sovra domanda (di manodopera come di materiali) con i noti riflessi sul costo / disponibilità dei materiali ma anche di forza lavoro. Analogamente, in ripresa dopo lo shock della pandemia, il settore del turismo ha visto crescere gli occupati sul 2020 ma non raggiunge ancora i livelli del 2019. Il controllo della pandemia sta comportando una ripresa dell’attività turistica con incrementi su base tendenziale delle posizioni lavorative che proseguiranno con ogni probabilità nel corso dell’anno. Rilevante in questo settore l’incidenza della manodopera straniera che, evidentemente, negli scorsi anni, con la riduzione di presenze turistiche in particolare nelle città d’arte, ha cercato soluzioni lavorative alternative acuendo oggi le tensioni stagionali sul fronte della domanda.

L’aumento degli occupati trainato da questi due settori, per quanto ampi e significativi, non deve distogliere però da un tema più ampio e complesso rappresentato dalle trasformazioni generate dai processi di digitalizzazione, internet of things e di riorganizzazione delle produzioni e dei consumi in chiave di economia circolare, in parte accelerati proprio dalla pandemia. Tanto la manifattura quanto i servizi sono in una fase di profonda riorganizzazione; quali saranno le professionalità richieste di qui a qualche anno? Rispondere a questa domanda non è semplice ma è importante per essere in grado di costruire per tempo le competenze necessarie ed evitare fenomeni di aumento dei posti vacanti. Su questi pesa come un macigno il valore della fiducia nei processi di tipo economico. Il lavoratore quando valuta lo scambio del proprio lavoro con retribuzione e benefit, mette anche in conto il costo/opportunità di svolgere una professione piuttosto che un’altra, scommettendo in un certo modo sulla sua impiegabilità futura. Ecco che il fenomeno delle vacancy non riguarda (solo) lavori poco appetibili per il tipo di mansioni (i lavori cosiddetti “brutti e sporchi”), ma anche lavori che scontano una bassa percezione di prospettiva. Le imprese – e il problema può valere anche per settori del pubblico impiego – sulle quali vi sono dubbi circa la capacità di resilienza sono costrette a pagare un tasso di interesse elevato (retribuzioni migliori), a fronte di un elevato turnover (lavoratori sistematicamente in cerca di altre opportunità a prescindere dalla forma contrattuale con cui sono inquadrati) o in alternativa azzardare allargando le maglie (minore selezione).

Relativamente invece al rapporto quantitativo tra domanda e offerta, un’incognita è data dalle tendenze demografiche in atto nella popolazione italiana. Questo punto merita un adeguato approfondimento e verrà sviluppato a breve in un prossimo articolo. Basti per ora ricordare che i bassi tassi di natalità, che da metà degli anni Settanta sono sotto la soglia di rimpiazzo, hanno generato nel corso di questi anni un primo parziale ammanco di forza lavoro che è stato ampiamente coperto dai flussi migratori in ingresso. Negli ultimi anni, e in particolare a partire dal 2013, si è notata una certa stagnazione degli ingressi di stranieri; questo fattore unito al saldo naturale ampiamente negativo ha cominciato ad avere come risultato una flessione della popolazione residente. Questo è di per sé un evento significativo, sia perché nella storia dell’Italia unita si era verificato solo due volte (Prima guerra mondiale e inizio degli anni Ottanta), sia perché in questo caso si sta prolungando molto di più rispetto ai due casi appena citati. È lecito chiedersi, quindi, se e quanto la fase demografica che si sta aprendo vada a incidere sulle dinamiche dell’incontro domanda-offerta di lavoro e quale nuovo equilibrio si potrà configurare nel mercato.

In questa prospettiva e per queste generazioni le politiche attive devono intervenire su percorsi di ridefinizioni professionali sostenendoli sia in costanza di rapporto, nelle imprese, sia nelle situazioni di discontinuità occupazionale affinché transizione ecologica, digitale ed economia circolare, in un contesto di crescente inflazione, non agiscano da fattore di spiazzamento ed esclusione ma siano vissuti come momento di evoluzione. È questa la sfida del 2030 sul piano del welfare per il lavoro.

Che cosa rende attrattiva una citta? I dilemmi contemporanei per il Veneto policentrico

[di Sergio Maset]

Le singolarità – siano esse uomini o aziende straordinarie – contano eccome. Tuttavia, la sostenibilità di una società non si misura nel grado di successo di pochi eccellenti quanto nella sua capacità di trasformare i buoni esempi in opportunità e queste in occasioni e strumenti di crescita diffusa. Per questo la relazione tra sistema produttivo, istituzioni, scuole e famiglie va costruita e alimentata. Una città può dirsi tale, a prescindere dalla sua effettiva dimensione, se riesce ad essere il luogo in cui questa consapevole relazione viene rinnovata e si traduce in rappresentanza.

Dopo quasi mezzo secolo di fuga dalle città più grandi, per la prima volta negli ultimi anni assistiamo ad una loro rinnovata crescita demografica. Si può provare a comprenderne le ragioni considerando l’effetto combinato di una serie di fenomeni di medio e lungo periodo. Il primo è dato dal fatto che le città, grazie a decenni di normative e investimenti sui motori delle auto, sul rinnovo degli impianti di riscaldamento, sulle emissioni industriali e, non da ultimo, attraverso lo spostamento al di fuori delle città dell’industria pesante, oggi non sono più le camere a gas che erano sino a qualche decennio fa. Il secondo fenomeno riguarda il mercato immobiliare che a fronte di un rallentamento della spinta demografica e con il mondo del terziario in profonda trasformazione ha visto abbassarsi le rendite e dunque i prezzi di affitti e vendite. Insomma, dopo una lunga fase in cui le città erano appannaggio di benestanti, banche e assicurazioni, il mercato torna ad essere appetibile per un ceto medio un po piu giovane e per negozi nuovamente a dimensione di vicinato. Considerato che in molte città si pone la necessità di metter mano a progetti di rinnovamento urbano (dai padiglioni fieristici alle caserme passando per mercati generali e fabbriche abbandonate) c’è la possibilità di sostenere ulteriormente una crescita demografica delle città con politiche abitative che coniughino qualità, centralità e disponibilità del portafoglio delle giovani famiglie.

La parte più complessa e stimolante della faccenda sta nel fatto, e qui vengo più direttamente al Veneto, che dopo quarant’anni di crescita generalizzata della domanda di forza lavoro, nell’ultimo decennio siamo in una situazione di sostanziale stagnazione a cui si aggiunge l’invecchiamento della popolazione per cui il rapporto tra occupati e popolazione anziana continua a precipitare. La situazione è per certi versi paradossale: da un lato non possiamo più permetterci di estromettere le donne dal mercato del lavoro e dall’altro dobbiamo trovare il modo di conciliare la loro maggiore inclusione con un aumento del numero di figli per ogni famiglia. Insomma, rivoluzionare l’immagine della famiglia. Non si tratta ovviamente di una sfida solo veneta: vale anche per le altre regioni del nord, con l’eccezione del solo Trentino Alto Adige.

Con l’arresto della spinta demografica e le molteplici trasformazioni del terziario (digitalizzazione dei servizi e ecommerce in primis) i prezzi nei capoluoghi di provincia diventano più accessibili e la popolazione riprende a concentrarsi nella città. Ma se ciò vale per i capoluoghi, che continuano localmente a svolgere il loro ruolo di città – in Veneto persino Belluno e Rovigo sono cresciuti nell’ultimo decennio – la sfida appare del tutto aperta per le piccole e medie cittadine, tra i 20 e i 40 mila abitanti. Che cosa può rendere attrattiva una di queste città? Ogni città, grande o piccola, che aspiri a ricoprire fattivamente questo ruolo, deve interrogarsi su come perseguire 3 obiettivi. Prima di tutto creare condizioni durature di espansione economica. Va rifiutata la retorica della decrescita felice mentre sono da perseguire forme sostenibili e responsabili di espansione, di crescita economica. Il secondo obiettivo è quello di inclusione che si traduce nella capacità di impiegare efficacemente le risorse umane di un dato territorio, donne e giovani in primis. Il terzo obiettivo è quello di conciliazione che significa rispondere al bisogno delle persone di vivere al meglio la pluralità di dimensioni della loro esistenza: conciliare dunque cura famigliare, impegno lavorativo, partecipazione sociale, ricreazione, cura del proprio benessere fisico.

Provando a scendere dunque nell’esperienza di analisi di Vittorio Veneto, il primo obiettivo, l’espansione, richiede di prendere consapevolezza che il presente del sistema produttivo della città si caratterizza ancora per una fortissima presenza industriale: il 40% degli addetti che operano nel comune lavora nell’industria manifatturiera, con una larghissima prevalenza di grandi imprese. In generale, queste rappresentano una risorsa per tutto il sistema produttivo in quanto sono le uniche in grado di stimolare l’acquisizione di ulteriori competenze da parte dei lavoratori, di sostenere la diffusione di innovazione, la concreta nascita di startup innovative oltre ad alimentare un indotto locale di piccole imprese. Ed è con aziende di grande dimensione che la città può sperimentare concretamente forme di innovazione sociale finalizzate a realizzare una maggiore inclusione dei giovani e delle donne. Ciò deve tradursi ad esempio in una più efficace attività di orientamento scolastico per i ragazzi delle scuole medie e le loro famiglie ma anche in una rete di servizi per la prima infanzia e sostenendo forme di smart working. Un territorio si può definire lungimirante nel momento in cui riesce a valorizzare e ottimizzare le sue esperienze di valore incluse quelle maturate sul versante dei servizi sociosanitari. Trattandosi di una città che ha molto da offrire in termini di qualità degli spazi urbani, le sue concrete possibilità di crescita sono legate alla capacità di trattenere e attrarre giovani famiglie facendo leva anche sulla vicinanza del centro storico al casello autostradale e sul rilancio del collegamento ferroviario con Treviso e Venezia. Infine, una città che si rende attraente agli ospiti, ai lavoratori e ai visitatori delle sue imprese attraverso servizi e proposte di qualità per il benessere, la ristorazione e il tempo libero diventa più interessante anche per le giovani famiglie.

GIOVANI, LE COMPETENZE INDIVIDUALI NON BASTANO

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su VeneziePost – 15 settembre 2017]

Un’indagine realizzata per la Provincia di Trento fa emergere un dato interessante: i giovani, se da un lato ritengono più utile per il loro futuro il rafforzamento delle competenze individuali, dall’altro lato quanto più scelgono di partecipare alla vita sociale organizzata, tanto più riescono a guardare positivamente alla loro dimensione lavorativa e professionale futura.

Il Trentino tra i territori del Nordest è quello che, insieme all’Alto Adige, è cresciuto di più demograficamente; in particolare è riuscito, a differenza di altre regioni del Nord Italia, a esprimere una crescita naturale con un tasso di natalità superiore alle altre. Ciononostante, anche nelle due province autonome si osservano fenomeni di de-giovanimento. Ponendoci di fronte ai fenomeni di crisi e di discontinuità evidenziatisi in quest’ultimo decennio e guardandoli secondo la prospettiva delle politiche per la famiglia, è importante dunque cercare di comprendere se, e in che modo, il venir meno di una serie di certezze in􀃥uenza il processo di autonomizzazione dei giovani.

Partendo dall’ipotesi che l’incertezza rappresenti un tratto caratterizzante di questa fase storica, e che richieda in qualche modo di essere governata da ciascuno, una domanda sensata è la seguente: quali sono gli elementi che i giovani ritengono essere un valido aiuto per affrontare il loro futuro, renderli più fiduciosi di fronte al mercato del lavoro e sereni nell’avviare a loro volta un percorso di genitorialità.

Proprio per approfondire queste dinamiche l’Agenzia per la famiglia, la natalità e le politiche giovanili della Provincia Autonoma di Trento ha promosso un’indagine su un campione di 360 giovani trentini di età compresa tra i 19 e i 35 anni. La ricerca ha consentito di evidenziare come, negli ultimi 10 anni, per i giovani trentini siano aumentate le condizioni ritenute indispensabili per poter uscire dalla famiglia e andare a vivere da soli: non solo un reddito sufficiente a mantenersi, ma anche la stabilità del lavoro e poi il sostegno economico della Provincia, la casa di proprietà…

In qualche modo i giovani nel 2016 sembrano porsi, e richiedere, maggiori garanzie prima di poter procedere a questo passo di quanto non fosse per i loro coetanei del 2006. E ciò è tanto più vero se si confronta il bisogno di certezze che viene espresso da quanti vivono ancora con i genitori rispetto a quanti vivono già da soli, con una sopravvalutazione del bisogno di garanzie e rassicurazioni. Insomma, l’indipendenza vista dalla finestra della casa paterna fa più paura di quanto non faccia vivendola direttamente. In tale contesto è evidente che la fiducia circa la possibilità di trovare un lavoro sufficiente per mantenersi da soli gioca un ruolo fondamentale: se ritengo che non troverò un lavoro, di fatto non potrò mai andare a vivere per conto mio. Più sono negativo su quel fronte, più sarò pessimista circa la possibilità di potermi realizzare autonomamente. La situazione paradossale, dunque, è che, in una fase in cui sono messe in discussione determinate certezze macroeconomiche, si accresce la fame di rassicurazioni, con il rischio però di generare una crisi di fiducia. Quali sono i punti di forza del Trentino che maggiormente contribuiscono al benessere delle persone? Nella percezione dei giovani al primo posto vi sono la Provincia e il sistema della formazione superiore e universitaria, seguiti poi dalle reti familiari, comunitarie e associative. Un risultato certamente positivo per la realtà trentina e che rende conto dell’impegno dell’amministrazione sul territorio.

Tuttavia, in una prospettiva comparata, è interessante guardare ad elementi che in qualche modo rimandano a fattori generali, superando la specificità. L’analisi in questo senso ha consentito di comprendere l’utilità attesa dai giovani di una serie di fattori: fattori che consentono il rafforzamento delle competenze individuali, fattori che realizzano una partecipazione all’ecosistema, e fattori relativi all’alimentazione della propria sfera affettiva e amicale.

Tutte le dimensioni proposte, ad esclusione dell’essere membro attivo della propria parrocchia e partecipare attivamente alla vita politica, sono ritenute da più di metà dei giovani trentini utili al proprio futuro. Tra queste, sono ritenute utili da almeno il 90% dedicare tempo e attenzione ai propri familiari (96%), migliorare la conoscenza delle lingue straniere (95%), dedicare tempo e attenzione agli amici (91%) ed essere sempre aggiornato sulle iniziative e opportunità della provincia. Migliorare la conoscenza delle lingue straniere è il fattore che raccoglie la più elevata percentuale di risposte molto positive, con un 80% seguito da dedicare tempo e attenzione ai propri familiari (77%). Superiori a 3/4 di risposte complessivamente positive sono anche continuare a studiare e migliorare le proprie competenze (87%), impegnarsi attivamente nel paese o quartiere (83%), apprendere forme di risparmio o investimento finanziario (77%) e apprendere gli strumenti per avviare un’attività imprenditoriale (76%).

Partecipare attivamente ad un’associazione si mantiene ancora al di sopra del 50% di risposte positive (68%), mentre essere membro attivo della propria parrocchia e partecipare attivamente alla vita politica sono giudicati abbastanza o molto utili per il proprio futuro rispettivamente dal 39% e dal 38% dei giovani.

Apparentemente nulla di particolarmente innovativo: famiglia e competenze come fattori chiave. Tuttavia, se si analizzano questi risultati ponendoli in relazione con la fiducia sul trovare in futuro un lavoro emerge che chi attribuisce importanza alla partecipazione all’ecosistema (organizzazioni, associazioni di volontariato, pro-loco e finanche la parrocchia) è anche tendenzialmente più fiducioso sul suo futuro. Una analisi di regressione dei tre macro fattori (competenze individuali, rete affettiva, partecipazione) sulla fiducia circa la possibilità di trovare un lavoro che consenta una vita autonoma ci dice proprio questo: i giovani, se da un lato ritengono più utile per il loro futuro il rafforzamento delle competenze individuali, dall’altro lato quanto più scelgono di partecipare alla vita sociale organizzata, tanto più riescono a guardare positivamente alla loro dimensione lavorativa e professionale futura.

Il tema merita ovviamente ulteriori approfondimenti. Tuttavia, la ricerca restituisce di per sé un’interessante prospettiva di lavoro e invita a ragionare sul benessere di una comunità non solo dalla prospettiva delle competenze individuali di cui si dotano i singoli, ma anche da quella del capitale sociale di cui gli individui, attraverso la partecipazione attiva, sono al contempo creatori e beneficiari. L’idea di fondo su cui riflettere è che l’incertezza non può trovare risposta in un continuo ed esclusivo accrescimento della dote individuale di competenze secondo l’equazione “più competizione globale, più incertezza, più competenze”. Né, tanto meno, la risposta può arrivare dal ripiegamento affettivo intergenerazionale. Emerge invece la domanda forte di una consapevole partecipazione, che relativizzi il senso di solitudine e di inadeguatezza di fronte ad un contesto globale complesso e incerto e rafforzi l’esperienza di far parte di una comunità di destino. Il terreno di gioco della politica, della rappresentanza e dei corpi intermedi.