Come transitare in modo sostenibile verso un nuovo equilibrio demografico

[di Sergio Maset e Andrea Mamprin

L’articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2022 su VeneziePost]

Il recente fenomeno dell’eccesso di dimissioni che si sono registrate a livello regionale e nazionale non può essere letto senza considerare lo spiazzamento che ha generato il lockdown e la conseguente ripresa post Covid nel mercato del lavoro: prima il congelamento della mobilità lavorativa poi la sua successiva ripresa con la crescita delle dimissioni una volta normalizzato il quadro pandemico; l’aumento della domanda di lavoro nella filiera delle costruzioni; la ripresa del settore del turismo e la diminuzione dell’offerta da parte di lavoratori che operavano in questa filiera e con i quali, nei due anni di Covid, è stata messa in forse la continuità di relazione. Il tema è stato affrontato già in un nostro precedente articolo.

Ora, non escludiamo che l’effetto del Covid abbia inciso anche sulle motivazioni al lavoro, tuttavia concentrarsi prima di tutto su questo aspetto rischia di distogliere l’attenzione da altri fenomeni che appaiono invece strutturalmente caratterizzare il sistema sociale: ovvero l’intensità e le geometrie del calo demografico.

Nel trascorrere degli ultimi vent’anni, c’è stata infatti una consistente contrazione di nuova forza lavoro. Entrando nel merito si osserva l’effettiva intensità e le caratteristiche di questa dinamica. A prescindere dalla precocità con cui si entra nel mercato del lavoro, dalla equità di accesso di uomini e donne e dalla rispondenza dell’offerta alla domanda, vi è un dato ineludibile: la popolazione residente nel nostro paese tra i 25 e i 34 anni cresce costantemente dal 1971 al 2001, passando da 7 milioni e 363 mila a 8 milioni e 800 per poi contrarsi fino ai 6 milioni e 300 mila del 2021. Questo significa che negli ultimi vent’anni il numero di giovani è stato interessato da un vero e proprio crollo, con una perdita di oltre 2 milioni e mezzo di abitanti. Le proiezioni Istat sembrano prevedere un’ulteriore contrazione che porterebbe questo contingente sotto i sei milioni di individui nel 2041. La principale causa di questo fenomeno è il basso tasso di fecondità che caratterizza il nostro paese da quasi cinquant’anni. Ad aumentare è stata invece la popolazione superiore ai 45 anni. Tutto ciò ha comportato sino ad oggi un invecchiamento della forza lavoro. Nei prossimi 20 anni, invece il fenomeno principale sarà la contrazione assoluta della popolazione in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni), 6 milioni e 625 mila in meno rispetto al 2021, con un crollo di quasi il 20%. L’unica classe di età che dovrebbe crescere è quella dei cosiddetti over 65 che finirebbero per rappresentare un terzo degli italiani. Queste due dinamiche opposte spingono a doppia velocità la società italiana verso una serie di interrogativi di vitale importanza: come conciliare una decrescita della popolazione a una situazione così sbilanciata verso le fasce anziane? Come si adatterà il sistema pensionistico e in più in generale il welfare del nostro paese? Ci saranno problemi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, ovvero il potenziale demografico interno al paese sarà sufficiente a coprire i posti di lavoro disponibili?

Certo queste domande passano ciclicamente in secondo piano ogniqualvolta si manifesta una fase di recessione economica che riporta in auge il tema della disoccupazione. Eppure, molte professionalità scarseggiano già da tempo nel mercato del lavoro italiano e viene da chiedersi quanto sia una questione di mismatch, di richiesta/presenza di determinate professionalità e quanto in realtà cominci a dipendere da fattori demografici. Il forte ingresso di immigrati in Italia tra il 2000 e il 2010 ha in parte posposto la questione, sia perché ha determinato un forte apporto in termini di forza lavoro, sia in quanto ha generato un contributo in termini di natalità. Questa spinta però è venuta affievolendosi nello scorso decennio e si è contestualmente verificata una riduzione considerevole della fecondità delle donne immigrate dovuta soprattutto a un cambio nella composizione per età degli ingressi femminili dall’estero.

Queste dinamiche assumono tinte decisamente più forti se cominciamo ad aggiungere anche il dettaglio territoriale. La riduzione del numero medio di figli per donna si è accompagnata anche a un progressivo schiacciamento della fecondità attorno agli stessi valori in tutte le aree del paese. Se negli anni Sessanta o settanta le donne del Sud avevano in media un figlio in più rispetto a quelle del Nord, dal 2000 i tassi di fecondità sono tutti allineati. Questo maggior calo della fecondità del Sud Italia si è sommato a una minore incidenza dell’immigrazione straniera e a una forte propensione ai trasferimenti di residenza interregionali in uscita: negli ultimi vent’anni la Campania ha accumulato un deficit migratorio interregionale di circa 400 mila persone, la Sicilia di 220 e la Puglia di 180 mila. Questi tre fenomeni assieme stanno determinando quella che a tutti gli effetti potremmo definire come un’emorragia di giovani nel meridione. Se nelle regioni centrali e soprattutto settentrionali, la popolazione con meno di 24 anni è addirittura cresciuta, nelle regioni meridionali è diminuita di un valore compreso tra il 20 e il 30% in soli vent’anni: una generazione persa.

Quanto occorso negli scorsi vent’anni ha inciso significativamente sulle abitudini di acquisito, con l’aumento della spesa per la cura del corpo e per le spese sanitarie; inoltre, il calo della popolazione tra i 25 e 34 anni verificatosi tra il 2001 e il 2021 è alla base della crisi della domanda per l’acquisto di prime case emersa dal 2005 in avanti. Guardando ai prossimi vent’anni è dunque necessario interrogarsi su come governare un mercato interno con meno bambini, meno studenti, meno lavoratori e cittadini nelle fasce centrali di popolazione e molti più cittadini e consumatori nelle fasce più anziane, in un quadro di differenze sensibili tra Nord e Sud.

La crescente attenzione per la sostenibilità ambientale ha portato a interrogarsi sulla ricerca di soluzioni che consentano un più efficiente utilizzo delle risorse, dall’energia alle materie prime: esemplare in proposito è il paradigma della sostenibilità dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Un ragionamento analogo andrebbe opportunamente applicato anche per accompagnare in modo economicamente e socialmente sostenibile il nostro paese verso un nuovo equilibrio demografico. Bisognerà tuttavia uscire dall’equivoco di ritenere che le sfide tecnologiche e l’innovazione si affrontano facendo leva su un allungamento indefinito del percorso di istruzione e dei tempi di conseguimento di un titolo di universitario, verso un più precoce inserimento di laureati nel lavoro. Un passo in avanti richiede tuttavia una migliore comprensione di come cambia la competitività tra le diverse filiere produttive, di come si distribuisce la capacità di produrre ricchezza tra settori e nel paese e di quali meccanismi applicare nella contribuzione alla spesa pubblica.

A crescere è la medio-grande impresa. Soprattutto in Emilia, Veneto e Toscana

[di Sergio Maset e Michele Polesana

L’articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2019 su VeneziePost]

Le ragioni per occuparsi di manifattura e analizzarne le tendenze in atto sono in Italia, e nel Nord Est in particolare, molteplici. Consideriamone tre. Innanzitutto, è sempre bene ricordarlo, l’Italia rappresenta la seconda manifattura d’Europa per valore aggiunto (263 miliardi di euro), dietro la Germania (705 miliardi di euro) e davanti alla Francia (232 miliardi di euro; 2018, Eurostat). Seconda ragione è il peso che questo settore riveste in termini di incidenza del valore aggiunto manifatturiero sul totale del valore aggiunto in regioni come il Veneto, l’Emilia Romagna (24% in entrambe), le Marche (23%), il Piemonte (22%), il Friuli Venezia Giulia (21%) e la Lombardia (20%, ma 28% escludendo la città metropolitana di Milano; 2016, Istat). La terza è data dal fatto che l’export di prodotti materiali vale l’82% delle esportazioni complessive di beni e servizi. Il turismo, settore assai rilevante della nostra economia, vale oggi il 7% dell’insieme di beni e servizi esportati (2017, Banca d’Italia) di cui una quota parte è comunque turismo d’affari, a sua volta generato proprio dall’interesse commerciale di chi in Italia compra o vende all’interno delle filiere manifatturiere. Andrebbe poi considerato un quarto ordine di ragionamento, che riguarda la capacità del settore manifatturiero di attivare una serie di servizi necessari allo svolgimento dell’attività produttiva ma che dipendono da questa – a supporto dell’esportazione, dei trasporti, del marketing e della pubblicità, dello sviluppo e ricerca sui prodotti – valutandone l’effetto indiretto, che ne aumenterebbe ulteriormente la considerazione in termini di peso sul PIL. Ma per questo momento è sufficiente considerare quanto sopra detto.

È allora una buona notizia che nel giro del quinquennio 2012-2016 l’occupazione manifatturiera di alcune province del Centro Nord[1] sia tornata a crescere. Si tratta ovviamente di tendenze di breve periodo, ma che si può provare a leggere in comparazione a quanto avvenuto nei decenni passati considerandone anche la geografia. Nel periodo 2001-2011, infatti, il numero di addetti manifatturieri era calato in tutte le province dell’Italia centro-settentrionale. Sono invece ora 13, su 64, le province in cui cresce l’occupazione manifatturiera: Bolzano, Parma, Lodi, Cremona, Belluno e Prato con un tasso superiore al 3%; ad un tasso intermedio (tra l’1% e il 3%) Firenze, Gorizia, Arezzo e Vicenza; ad un tasso più contenuto (1% o meno) Piacenza, Grosseto e La Spezia. C’è poi un dato che differenzia ancor più il ciclo 2012-2016, per quanto di breve periodo, dal precedente: mentre tra 2001 e 2011 calava in tutte[2] le province del Centro Nord il numero di addetti sia della micro-piccola manifattura (0-49 addetti) che della medio-grande (50 addetti e più), nell’ultimo quinquennio si assiste a dinamiche differenziate nelle due macro-classi dimensionali, con ben 34 province in cui cresce il numero di addetti delle industrie manifatturiere medio grandi, mentre soltanto in 4 province cresce la piccola. Una crescita, quella delle unità produttive medio-grandi, che avviene soprattutto nelle regioni di Nord Est, dove si registra nello stesso periodo anche un consistente aumento del valore aggiunto del manifatturiero, e in Toscana. Non si tratta evidentemente di una dinamica spiegabile con la volatilità di province a bassa presenza manifatturiera. Infatti anche considerando le prime 23 province, quelle con almeno 20.000 addetti nella medio-grande manifattura, risulta in crescita il numero di addetti della medio-grande impresa in 11, circa la metà di esse. Va invece osservato il carattere regionale di questi fenomeni. In Veneto ed Emilia Romagna le province in cui cresce il numero di addetti della media grande manifattura sono più di tre quarti: in Veneto tutte, con eccezione di Rovigo e con Treviso sostanzialmente stabile con lieve segno negativo; in Emilia Romagna tutte, con eccezione di Ferrara e con Reggio Emilia sostanzialmente stabile con lieve segno negativo. In Lombardia la crescita degli addetti del manifatturiero medio-grande riguarda invece solo 4 province su 12, di cui solo 2 province su 8 oltre i 20.000 addetti. Analogamente in Piemonte, dove a crescere sono solo 3 su 8 province. Una situazione, quella della medio-grande manifattura lombarda e piemontese, su cui pesano in particolare una contrazione della provincia di Torino e le difficoltà di alcuni comparti provinciali tradizionali (es. tessile-confezionamento di Bergamo, Mantova e Cuneo e chimica-farmaceutica di Milano e Monza). Tra i settori che contribuiscono maggiormente ad una variazione positiva dell’occupazione nella medio-grande manifattura regionale figurano invece il tessile-confezionamento di Milano e la meccanica avanzato di Bergamo per la Lombardia, l’industria alimentare di Cuneo e la chimica di Alessandria per il Piemonte. La geografia emergente restituisce ancora una volta l’immagine di un Piemonte fortemente de-industrializzato dal punto di vista manifatturiero e di un asse padano più spostato in direzione sud (Emilia-Romagna) e verso Est a cui si aggiunge la continua espansione dell’industria della provincia di Bolzano e alcuni segnali di ripresa della Toscana.

Una buona notizia, dunque, tantopiù che la ripresa dell’occupazione manifatturiera avviene in controtendenza rispetto ai timori generati dalla salienza mediatica del tema della robotizzazione, atteso come fattore di declino tout court dell’occupazione nella manifattura e invece fattore di crescita da leggersi contestualmente ai processi di reshoring: produzione che rientra in Italia con più intensità di capitale e maggiore impiego di profili professionali elevati.

Ma quali sono le possibili implicazioni della crescita della medio-grande manifattura? Ovvero perché, al di là delle constatazioni più ovvie, è una buona notizia questa inversione di tendenza? Torniamo a osservare l’andamento del numero di addetti manifatturieri nelle regioni dell’Italia centro settentrionale. Gli anni Settanta sono quelli della nascita della cosiddetta Terza Italia, e vedono una crescita degli addetti manifatturieri che riguarda soprattutto la micro e la piccola impresa, spinta anche da processi di esternalizzazione della grande industria. Gli anni Ottanta portano a compimento il processo di riorganizzazione della produzione in chiave distrettuale, con una crescita degli addetti che interessa unicamente le micro e piccole imprese (ad eccezione di Piemonte, Liguria e Toscana, in cui gli addetti delle micro-piccole imprese manifatturiere calano), ed una crescita dell’occupazione manifatturiera complessiva soltanto in Veneto. Gli anni Novanta, con l’imporsi della globalizzazione, segnano un’inversione di tendenza: cala il numero di addetti della micro e piccola impresa in tutte le regioni tranne Friuli Venezia Giulia, Umbria e Marche, mentre torna a crescere la media e grande impresa in Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Marche, con l’effetto che solo in esse cresce il numero complessivo di addetti manifatturieri[3]. Nel decennio 2001-2011 sulle trasformazioni indotte dai fenomeni globali si innestano le due ondate di crisi coincidenti con i periodi 2008-2009 e 2012-2013, con l’effetto di una contrazione generalizzata dell’occupazione manifatturiera, che cresce soltanto in Trentino Alto Adige e in Toscana[4].

Una crescita occupazionale ad oggi di fatto confinata al solo comparto della medio-grande manifattura sembra rispondere a logiche analoghe a quelle che avevano iniziato ad affacciarsi negli anni Novanta: le sfide imposte dalla globalizzazione e dalla competizione internazionale richiedono di essere dimensionalmente strutturati per innovare, internazionalizzarsi, esportare.

E’ la fine della piccola impresa manifatturiera dunque? A fronte di una riduzione tendenziale dei suoi addetti che procede dagli anni ’90 sembrerebbe difficile affermare il contrario. Tuttavia, non si può trascurare il fatto che dietro alla contrazione storica della piccola impresa che si osserva nelle statistiche ci stia anche il superamento di un modello produttivo che viveva in stretta relazione con la grande industria in un rapporto di esternalizzazione di manodopera e contoterzismo messo in crisi dall’automazione prima e dalla globalizzazione poi, e ora dalla digitalizzazione. All’interno delle statistiche territoriali si fatica a scindere la coda delle micro e piccole imprese manifatturiere “pre-digitali” dalle dinamiche delle imprese manifatturiere “post-digitali” che pur ci sono e nelle quali le figure di chimici, ingegneri dei materiali, ingegneri elettronici e informatici sono parte significativa della manodopera dell’impresa. Per queste ultime è ipotizzabile una crescita ulteriore proprio in relazione alla crescita della media grande impresa. Vi è infatti un importante corollario. Le medie e grandi imprese in un contesto fertile dal punto di vista finanziario e formativo sono in grado di stimolare maggiormente la crescita delle competenze dei lavoratori, diffondere innovazione, intercettare domande complesse. Ovvero domande che proprio in virtù di questa loro complessità hanno un valore anche di mercato, che stimolano l’imprenditorialità, l’ingegno, e premiano economicamente la creatività . In contesti produttivi in cui ci sono forza lavoro dotata di competenze e capacità, diffusa cultura del fare impresa e un sistema di sostegno finanziario allo start up, la media e grande industria genera interesse, con la sua domanda, alla creazione di nuove imprese. Si tratta di piccola impresa che non fornisce servizio alla popolazione o, in modo convenzionale e adempimentale, alle imprese, ma si spinge nell’innovazione di prodotti e di processi costruendo una propria offerta. Ne discende uno scenario di policy quanto mai desiderabile. In un contesto di popolazione stagnante, in cui i consumi interni difficilmente possono dilatarsi oltre modo per quanto sostenuti e incentivati, creare nuova impresa e occupazione all’interno di filiere guidate dall’esportazione in settori ad alta innovazione è una strategia di buon senso.

La ripresa degli addetti attivi nella grande e media impresa, unitamente alla crescita del valore aggiunto e delle esportazioni, sono dunque segnali positivi e ove hanno luogo costituiscono un concreto punto di partenza e di appoggio su cui ricostruire una promessa di non marginalizzazione, di non perifericità, di protagonismo per le giovani generazioni. Perciò, a fronte di sfide complesse, interpretate e affrontate dagli attori più strutturati del sistema industriale, si creano realmente e concretamente gli spazi di impiego, anche con un respiro internazionale, per nuove generazioni di collaboratori e opportunità per nuovi imprenditori.

Figura 1. Tasso di variazione provinciale 2012-2016 degli addetti alla manifattura nelle unità locali con 50 addetti e più

Fonte: elaborazione su dati Istat [5]

Tabella 1. Tasso di variazione % addetti alla manifattura per periodo e classe dimensionale[6]

Tabella 2. Addetti alla manifattura per classe dimensionale – 2016

[1] Sono state incluse nell’analisi le seguenti regioni: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche.

[2] Con la sola eccezione di Rimini.

[3] Feltrin P., Maset S. (2012), Le onde lunghe dello sviluppo territoriale del Nord, in Perulli P. (a cura di), Nord. Una città-regione globale, Il Mulino, Bologna

[4] Maset S. (2014), Opportunità e resistenze nei nuovi contesti economici e produttivi, in Quaderni della Fondazione Francesco Fabbri, 2

[5] Tra 2012 e 2016 il numero di addetti della medio-grande manifattura delle province di Treviso (-0,02%) e Reggio-Emilia (-0,4%) è tecnicamente negativo ma sostanzialmente stabile.

[6] Per coerenza con la mappa (e i dati riportati sopra) le variazioni nei periodi 2001-2011 e 2012-2016 comprendono una redistribuzione stimata degli addetti interinali (figura introdotta nel 1997). Analogamente, nella tabella successiva, i dati 2001, 2011 e 2016.

Che cosa rende attrattiva una citta? I dilemmi contemporanei per il Veneto policentrico

[di Sergio Maset]

Le singolarità – siano esse uomini o aziende straordinarie – contano eccome. Tuttavia, la sostenibilità di una società non si misura nel grado di successo di pochi eccellenti quanto nella sua capacità di trasformare i buoni esempi in opportunità e queste in occasioni e strumenti di crescita diffusa. Per questo la relazione tra sistema produttivo, istituzioni, scuole e famiglie va costruita e alimentata. Una città può dirsi tale, a prescindere dalla sua effettiva dimensione, se riesce ad essere il luogo in cui questa consapevole relazione viene rinnovata e si traduce in rappresentanza.

Dopo quasi mezzo secolo di fuga dalle città più grandi, per la prima volta negli ultimi anni assistiamo ad una loro rinnovata crescita demografica. Si può provare a comprenderne le ragioni considerando l’effetto combinato di una serie di fenomeni di medio e lungo periodo. Il primo è dato dal fatto che le città, grazie a decenni di normative e investimenti sui motori delle auto, sul rinnovo degli impianti di riscaldamento, sulle emissioni industriali e, non da ultimo, attraverso lo spostamento al di fuori delle città dell’industria pesante, oggi non sono più le camere a gas che erano sino a qualche decennio fa. Il secondo fenomeno riguarda il mercato immobiliare che a fronte di un rallentamento della spinta demografica e con il mondo del terziario in profonda trasformazione ha visto abbassarsi le rendite e dunque i prezzi di affitti e vendite. Insomma, dopo una lunga fase in cui le città erano appannaggio di benestanti, banche e assicurazioni, il mercato torna ad essere appetibile per un ceto medio un po piu giovane e per negozi nuovamente a dimensione di vicinato. Considerato che in molte città si pone la necessità di metter mano a progetti di rinnovamento urbano (dai padiglioni fieristici alle caserme passando per mercati generali e fabbriche abbandonate) c’è la possibilità di sostenere ulteriormente una crescita demografica delle città con politiche abitative che coniughino qualità, centralità e disponibilità del portafoglio delle giovani famiglie.

La parte più complessa e stimolante della faccenda sta nel fatto, e qui vengo più direttamente al Veneto, che dopo quarant’anni di crescita generalizzata della domanda di forza lavoro, nell’ultimo decennio siamo in una situazione di sostanziale stagnazione a cui si aggiunge l’invecchiamento della popolazione per cui il rapporto tra occupati e popolazione anziana continua a precipitare. La situazione è per certi versi paradossale: da un lato non possiamo più permetterci di estromettere le donne dal mercato del lavoro e dall’altro dobbiamo trovare il modo di conciliare la loro maggiore inclusione con un aumento del numero di figli per ogni famiglia. Insomma, rivoluzionare l’immagine della famiglia. Non si tratta ovviamente di una sfida solo veneta: vale anche per le altre regioni del nord, con l’eccezione del solo Trentino Alto Adige.

Con l’arresto della spinta demografica e le molteplici trasformazioni del terziario (digitalizzazione dei servizi e ecommerce in primis) i prezzi nei capoluoghi di provincia diventano più accessibili e la popolazione riprende a concentrarsi nella città. Ma se ciò vale per i capoluoghi, che continuano localmente a svolgere il loro ruolo di città – in Veneto persino Belluno e Rovigo sono cresciuti nell’ultimo decennio – la sfida appare del tutto aperta per le piccole e medie cittadine, tra i 20 e i 40 mila abitanti. Che cosa può rendere attrattiva una di queste città? Ogni città, grande o piccola, che aspiri a ricoprire fattivamente questo ruolo, deve interrogarsi su come perseguire 3 obiettivi. Prima di tutto creare condizioni durature di espansione economica. Va rifiutata la retorica della decrescita felice mentre sono da perseguire forme sostenibili e responsabili di espansione, di crescita economica. Il secondo obiettivo è quello di inclusione che si traduce nella capacità di impiegare efficacemente le risorse umane di un dato territorio, donne e giovani in primis. Il terzo obiettivo è quello di conciliazione che significa rispondere al bisogno delle persone di vivere al meglio la pluralità di dimensioni della loro esistenza: conciliare dunque cura famigliare, impegno lavorativo, partecipazione sociale, ricreazione, cura del proprio benessere fisico.

Provando a scendere dunque nell’esperienza di analisi di Vittorio Veneto, il primo obiettivo, l’espansione, richiede di prendere consapevolezza che il presente del sistema produttivo della città si caratterizza ancora per una fortissima presenza industriale: il 40% degli addetti che operano nel comune lavora nell’industria manifatturiera, con una larghissima prevalenza di grandi imprese. In generale, queste rappresentano una risorsa per tutto il sistema produttivo in quanto sono le uniche in grado di stimolare l’acquisizione di ulteriori competenze da parte dei lavoratori, di sostenere la diffusione di innovazione, la concreta nascita di startup innovative oltre ad alimentare un indotto locale di piccole imprese. Ed è con aziende di grande dimensione che la città può sperimentare concretamente forme di innovazione sociale finalizzate a realizzare una maggiore inclusione dei giovani e delle donne. Ciò deve tradursi ad esempio in una più efficace attività di orientamento scolastico per i ragazzi delle scuole medie e le loro famiglie ma anche in una rete di servizi per la prima infanzia e sostenendo forme di smart working. Un territorio si può definire lungimirante nel momento in cui riesce a valorizzare e ottimizzare le sue esperienze di valore incluse quelle maturate sul versante dei servizi sociosanitari. Trattandosi di una città che ha molto da offrire in termini di qualità degli spazi urbani, le sue concrete possibilità di crescita sono legate alla capacità di trattenere e attrarre giovani famiglie facendo leva anche sulla vicinanza del centro storico al casello autostradale e sul rilancio del collegamento ferroviario con Treviso e Venezia. Infine, una città che si rende attraente agli ospiti, ai lavoratori e ai visitatori delle sue imprese attraverso servizi e proposte di qualità per il benessere, la ristorazione e il tempo libero diventa più interessante anche per le giovani famiglie.

Contrattazione salariale e autonomia, Il Sud non ci sta

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia, Il mattino di Padova, il 2 febbraio 2019]

A un anno dal referendum veneto sull’autonomia, il dibattito si è acceso a livello nazionale portandosi sul piano del confronto Nord-Sud e facendo emergere un punto finora per nulla considerato: i meccanismi di contrattazione salariale. Le retribuzioni della pubblica amministrazione, uguali da nord a sud, sono uno strumento di livellamento reddituale del paese, che tira in alto il reddito medio nel sud e lo livella al ribasso nel nord, con una forzata indifferenza ai divari regionali del prodotto interno lordo. Domanda: può una seria riforma autonomista non affrontare il tema della contrattazione regionale? La risposta è negativa perché la spesa pubblica corrente è costituita in larga parte da retribuzioni. Inoltre, l’assenza di omogeneità tra retribuzioni nel pubblico e nel privato pone a mio avviso una questione di equità, tra comparti diversi in una stessa regione, e tra regioni diverse all’interno del comparto pubblico. Il nodo vero dunque è il seguente: è disposto il meridione a mettere in discussione questo meccanismo? A giudicare dalle risposte del mondo industriale meridionale, la risposta è sinora negativa. Tuttavia, e qui sta il punto, non si vedono nemmeno le proposte delle rappresentanze sindacali del nord.

Per venire al Veneto, qui più che in Lombardia e in Emilia Romagna, si respira la frattura tra privato e pubblico impiego. Il privato è l’icona della produttività, contrapposto alla retorica del pubblico, sotto sotto sempre indicato, ahimè, come burocratico, inefficiente e statalista. A 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale, primo vero momento unificante dell’Italia, in Veneto le istituzioni pubbliche sono ancora vissute come corpi esterni, borbonici o lombardi. Ecco dunque un nodo problematico nel percorso di riforma autonomista: intervenire su un qualcosa, l’assetto di competenze nella pubblica amministrazione, di cui non si è costruito un interessa della società veneta. Ben diversa è la situazione nel meridione. Posto su questo piano il confronto, la palla torna alla rappresentanza del nord e del Veneto: o si è in grado di costruire un consenso politico per discutere nel merito dei cavilli che spostano risorse (contrattazione decentrata, allocazione del tfr, minimi salariali, ecc), oppure il percorso rischia di condannarsi all’irrilevanza. Perché questo prosegua bisogna partire dal riconoscere che abbiamo bisogno di migliorare le istituzioni e non di meno istituzioni. A fronte di una maggiore complessità, basti pensare alle sfide degli equilibri demografici, della denatalità, della gestione delle risorse energetiche e naturali, abbiamo bisogno di esprimere crescente qualità di gestione politica e amministrativa nella dimensione dell’agire collettivo. E un primo urgente terreno su cui investire è quello dell’istruzione: dalla scuola dell’infanzia all’università, ridando alle istituzioni scolastiche la dignità e le risorse che servono: certamente con una diversa distribuzione delle risorse e non con altra spesa in deficit.

UN GOVERNO PER LA RIFORMA FEDERALISTA

[di Sergio Maset

Articolo pubblicato su La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova il 6 marzo 2018]

La rappresentazione geografica dei risultati di quest’ultima elezione ci restituisce una fotografia in cui il fattore davvero prevalente è il dualismo Nord-Sud, con da una parte un Nord a trazione Lega “nazionale” di Salvini – un partito che poco ricorda la Lega Nord – e dall’altra un Sud pentastellato costruito su promesse di strepitoso assistenzialismo (reddito di cittadinanza e via discorrendo). A perdere, inutile a dirlo, i due partiti più certamente nazionali (Forza Italia e il Partito Democratico), avulsi per tradizione sia da narrazioni fortemente localiste che nazionaliste.

Una lettura non convenzionale dovrebbe tuttavia suggerirci che l’affermazione dei Cinque Stelle è indebolita potenzialmente e forse irrimediabilmente dalla sua geografia. In Italia un partito del Sud costruito sulle promesse di una economia di assistenza non è credibile rispetto ad un qualsivoglia obiettivo di sviluppo del paese né, tanto meno, è sostenibile per la finanza pubblica. E lo è ancor meno di quanto lo sia un partito del Nord. Ciò è vero per una ragione molto semplice: tanto più un partito del Sud preme dal punto di vista elettorale in quanto bacino di voti, tanto più si indebolisce, perché rianima un’istanza – che diviene a quel punto separatista – del Nord. Mentre all’autonomia del Nord fa da contraltare la richiesta di perequazione a favore del Sud, richiesta finora sempre rispettata, un rinforzo delle istanze assistenzialiste del Sud genererebbe oggi una irrimediabile chiusura da parte del Nord.

L’unica reale risorsa politica che mi pare emergere in questo scenario è costituita dal processo di riforma autonomista attuato in questi ultimi mesi dalle tre regioni Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Ed è l’unica perché è quella che realisticamente può porre un limite al rischio di allargare ulteriormente il solco tra Nord e Sud, senza peraltro cadere in una retorica neo unitaria (“il noi Italiani”) costruita su di un insostenibile isolazionismo verso l’esterno, alla Trump o alla Brexit, per intenderci, che ben poco interessa alle imprese e ai lavoratori.

In questa prospettiva c’è da domandarsi se l’opzione sostenibile non sia un governo di scopo da costruirsi intorno ad un programma di attuazione del disegno autonomista regionale sulla base della piattaforma a cui sono giunte Veneto, Emilia Romagna e Lombardia. Tre regioni di tradizione e cultura politica ben distinta accomunate dal fatto di essere il motore economico del paese, e interessate a realizzare l’autonomia come strategia per rispondere più efficacemente ad obiettivi di competitività economica globale: da sole, è bene ricordarlo, realizzano il 55% del valore dell’export nazionale.

L’opzione alternativa tratteggia foschi scenari, in cui Governi deboli lascerebbero mano libera non tanto alle derive populiste quanto all’alta burocrazia del Paese, attribuendo di fatto a questa il ruolo di garante della salvaguardia delle sue finanze e della sua unità. Un incubo in cui la rappresentanza generale è rassegnata al governo di una tecnocrazia grigia e gattopardesca.